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Questo canto è dominato da Gerione, creatura infernale che compare alla fine del canto precedente, e che rappresenta la frode. Per essere precisi, delle 45 terzine (col resto di 1) del canto, 31 sono usate per descrivere prima l'aspetto fisico di Gerione (con testa umana, corpo da serpente, zampe alate da dragone e coda da scorpione), poi la discesa di Dante e Virgilio, portati a cavallo del mostro volante, fino "al pié della stagliata rocca", cioé sul fondo roccioso dove si getta il fiume vermiglio Flegetonta con "orribile scroscio". Le rimanenti 14 terzine sono una specie di intermezzo: mentre Virgilio fa un discorso (di cui Dante non riferisce niente) a Gerione per convincerlo a cooperare, Dante va "dove sedea la gente mesta": questi sono gli usurai, che sono condannati a rimanere seduti sotto la pioggia di fuoco e sulla sabbia rovente. Il primo paragone che fa quando li vede è con i cani che d'estate in continuazione cercano di scacciare col muso o con le zampe pulci, mosche o tafani che li mordono. Gli usurai hanno appesa al collo una borsa con una tasca, che reca il colori e le insigne della loro famiglia. Dante parla solo con uno di questi, che gli dice subito di andare via. Poi dice di essere padovano e circondato da fiorentini, e fa delle profezie su chi verrà a sedersi vicino a lui. Quindi mostra la lingua a Dante "come bue che 'l naso lecchi". A questo punto Dante ritorna sull'orlo del fossato dove Virgilio è già salito in groppa a Gerione, e superando il terrore del mostro per non fare brutta figura di fronte a Virgilio, si assesta a cavallo pure lui, senza neanche riuscire a chiedere, come vorrebbe, di essere abbracciato. Ma come già successo altre volte, Virgilio capisce quello che vuole, e appena salito a cavallo di fronte a lui (in modo da essere protetto dalla coda con pungiglione velenoso di Gerione) lo avvince e lo sostiene con le braccia. Poi dice a Gerione di muoversi lentamente e con attenzione, pensando al carico che porta, e comincia la discesa che Dante impaurito paragona a due episodi mitologici: il carro di Fetonte, e il volo di Icaro. Subito prima che Gerione si posi sul fondo del baratro, Dante intravede fuochi e sente i pianti dei dannati puniti nell'ottavo cerchio, che comincia lì.
«Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!».
Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin d’i passeggiati marmi.
E quella sozza imagine di froda
Questa creatura infernale è servita a concludere in modo
drammatico (quasi come da "suspense" di un moderno romanzo...) il Canto XVI. Il suo nome verrà
rivelato solo al verso 97 di questo Canto: si tratta di Gerione, un personaggio che è, nella
mitologia classica, "un re crudelissimo di un'isola occidentale, ucciso da Ercole in una
delle sue dodici fatiche" [Sapegno]. Ma la descrizione fisica di questa "fiera selvaggia"
è fornita dalla fantasia di Dante, e poco rassomiglia al Gerione ucciso da Ercole (che era un gigante con tre teste, sei braccia e sei gambe).
Dante lo raffigura con una testa e viso da "uom giusto",
due zampe artigliate simili a un dragone, e il resto del corpo come un serpente, con pelle
decorata da "nodi e rotelle" simili alle decorazioni dei tappeti dei turchi o dei tartari. Inoltre
ha una coda fornita di punta velenosa come uno scorpione.
Un'altra innovazione di Dante è che questo mostro rappresenta la frode. Senz'altro questo è già simboleggiato
dalla sua costituzione fisica ambigua ed ingannevole. Ma riprende anche il mito del Gerione ucciso da Ercole, che "accoglieva
gli uomini et tiravagli a sè d'ogni paese, et poi ch'egli gli avea nel suo albergo, mostrando di volere fare loro cortesia, gli rubava et uccidevagli et davagli a mangiare et a divorare a sue cavalle. Ercole, arrivando nel paese, finalmente l'uccise, però che trovò le
mangiatoie piene d'uomini morti" [Anonimo Fiorentino, leggenda medievale ripresa da Boccaccio]. L'idea di dargli un viso umano e coda da scorpione è forse ricavata dalle locuste dell'Apocalisse, che erano fatte in quel modo [Sapegno,
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sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
ma ’n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte.
Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi
lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.
Lo duca disse: «Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca».
Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.
E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.
Quivi ’l maestro «Acciò che tutta piena
esperïenza d’esto giron porti»,
mi disse, «va, e vedi la lor mena.
Li tuoi ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti».
Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.
Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.
Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ’l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch’avea certo colore e certo segno,
e quindi par che ’l loro occhio si pasca.
E com’ io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d’un leone avea faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa,
mostrando un’oca bianca più che burro.
E un che d’una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: «Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ’l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
gridando: “Vegna ’l cavalier sovrano,
che recherà la tasca con tre becchi!”».
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che ’l naso lecchi.
E io, temendo no ’l più star crucciasse
lui che di poco star m’avea ’mmonito,
torna’mi in dietro da l’anime lasse.
Trova’ il duca mio ch’era salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: «Or sie forte e ardito.
Omai si scende per sì fatte scale;
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male».
Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,
e triema tutto pur guardando ’l rezzo,
tal divenn’ io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
Ho trovato questa terzina difficile da capirsi. Poi, una volta capita, l'ho trovata bellissima. Dante fa paragoni in continuazione e
secondo me è proprio in alcuni di questi paragoni così evocativi che risiede la sua grandezza come poeta. Il problema iniziale per me
è stato che a una prima lettura sembra che nel verso "vergogna mi fé le sue minacce", il soggetto sia "le sue minacce", e "sue" voglia dire "di Virgilio". Quindi
avevo interpretato il significato come: "e le minaccie di Virgilio mi fecero vergognare". Ma questa scelta di parole mi pareva poco opportuna. Minacce? Da tutto
il contesto non sembrava proprio che Virgilio tenesse atteggiamento minaccioso nei confronti di Dante, soprattutto a questo punto. E poi come si va dall'immagine di un padrone
minaccioso, a quella di "buon padrone" al verso seguente? Nel complesso la scena mi sembrava stonata.
Inveve il soggetto della frase è la vergogna, personificata, che minaccia Dante con il fare una brutta figura di fronte al "buon padrone", e il paragone è perfetto: quando si
sa di essere osservati da una persona di cui abbiamo grande stima e rispetto, e che ha anche ruolo ufficiale di nostro maestro e insegnante, allora il nostro desiderio di non deluderlo
ci fa diventare più coraggiosi del solito di fronte a una situazione che incute paura. Questo è senz'altro il significato di quei due versi, che esprimono tale lunga e convoluta
frase in modo poetico con poche essenziali e magistralmente scelte parole: "ma vergogna mi fé le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte".
Ho trovato poi interessante andare a leggere le numerose note su questi due versi che i commentatori hanno scritto nel corso di sette secoli. Il sito
Princeton Dante Project
riporta 59 commenti, il primo del 1324 e l'ultimo del 2015. Non li ho letti proprio tutti, ma è evidente che fino a circa il 19mo secolo i commentatori facevano esattamente
lo stesso errore che avevo fatto io. E leggendo alcuni dei commenti più vecchi, si trovano secondo me chiari esempi del proverbiale
"arrampicarsi sugli specchi", per volere a tutti i costi sostenere una tesi
poco probabile:
Gregorio di Siena (1867), per giustificare il fatto che Virgilio "minaccia" Dante, dice:
"Le minacce è voce che vuol qui prendersi nel suo primitivo significato tratto dal lat. minare o minari che, giusta il Vossio, è pellere, pecus agere, onde menare per condurre, e minae la voce dell'aratore che guida i buoi al lavoro. E quindi fatto eminente per chi sta sopra e minore per chi è soggetto. "
E Niccolò Tommaseo (1837), dice:
"Minacce: Non sempre ostile. Minae i Latini, le voci con che il bifolco stimola i bovi al lavoro."
Invece i commentatori più moderni interpretano nel secondo modo, che deve essere corretto. Senz'altro si può ricavare un senzo di soddisfazione
nel constatare che la comprensione del mondo in genere migliora con il tempo...
I’ m’assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com’ io credetti: ‘Fa che tu m’abbracce’.
Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai
con le braccia m’avvinse e mi sostenne;
e disse: «Gerïon, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai».
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch’al tutto si sentì a gioco,
là ’v’ era ’l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l’aere a sé raccolse.
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,
che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.
Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.
Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.
Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’ io tremando tutto mi raccoscio.
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti.
Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;
così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,
si dileguò come da corda cocca.
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