La Divina Commedia



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Mappa dell'inferno Dantesco
Mappa del Purgatorio


Dante per tutte le occasioni

Purgatorio

Canto VI

Furio legge Dante

In questo canto, che è più lungo della media, succede meno del solito, perché la metà precisa è occupata da una lunga invettiva (la più lunga finora) di Dante che si lamenta della tormentata situazione politica dell'Italia. Il canto è composto di 50 terzine (più un verso), e all'inizio della 26ma terzina comincia l'invettiva che continua fino alla fine del canto. Nella prima metà del canto, Dante è circondato da una folla di anime che vogliono essere ricordate nelle preghiere dei viventi, e fa un pittoresco paragone con la folla che si accalca intorno al vincitore del gioco della zara. Poi elenca una lista di nomi di anime che vede pssando, tutte persone morte violentemente. Segue un'interessante discussione teologica a filosofica fra Dante e Virgilio, scaturita dall'osservazione di Dante che secondo alcuni versi scritti da Virgilio nell'Eneide, le preghiere sono inutili per far cambiare idea agli dei, ma invece nel purgatorio tutte le anime sono grandemente ansiose di ricevere intercessioni tramite le preghiere dei vivi. Virgilio cerca di spiegare, ma poi dice a Dante di aspettare che incontri Beatrice, che sarà più competente. A questo punto i viaggiatori incontrano un'anima di Mantova (Sordello), che fa calorosa accoglienza a Virgilio appena impara che è suo compatriota. Proprio da qui scaturisce l'invettiva di Dante, che paragona l'affettuoso incontro dei due connazionali con le lotte interne che devastano tutta l'Italia. Dopo aver commiserato la triste condizione di lotte intestine nel paese, dirige il suo sdegno all'imperatore tedesco Alberto che non si prende cura di venire a mettere sotto il suo controllo le varie città che lottano fra di loro. Non esita poi a rivolgersi a Dio stesso e a chiedergli se abbia gli occhi rivolti altrove, o forse l'apparente abbandono non sia parte di un misterioso disegno divino in preparazione di qualche bene futuro. Nell'ultima parte del canto cambia tono e diventa apertamente sarcastico per dirigere la sua invettiva contro Firenze, e conclude paragonando i frequenti cambiamenti di leggi e costumi della città a una malata che crede di poter risolvere le sue sofferenze rigirandosi nel letto.



Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara; La zara era un gioco medioevale che consisteva nel lanciare tre dadi standard (cubi con facce numerate da 1 a 6). Prima che i dadi si fermassero, i partecipanti gridavano un numero che scommettavano sarebbe stato la somma delle tre faccie ottenute. Poi o perdevano o vincevano un numero di monete uguale a quello che avevano gridato. Trovo interessante che possiamo ricavare da qui l'etimologia di due correnti espressioni della lingua italiana. La prima è "gioco d'azzardo", che deriva direttamente da "zara". Per spiegare la seconda, bisogna sapere che un lancio dei dadi era chiamato "una volta", quindi il verso 3 si riferisce al fatto che il perdente ripensava alla "volta" che eveva perso. Un semplice calcolo delle possibilità rivela che \(3\) e \(18\) possono apparire solo in una configurazione (\(3=1+1+1\) e \(18=6+6+6\)), mentre \(4=1+1+2=1+2+1=2+1+1\) e \(17=6+6+5=6+5+6=5+6+6\) hanno tre configurazioni, e così via, i numeri \(10\) e \(11\) hanno la più alta probabilità di apparire, perché corrispondono a \(27\) configurazioni ciascuno. Quindi la migliore strategia sarebbe di gridare sempre o \(10\) o \(11\), mentre ovviamente non è una buona idea gridare \(3\) o \(18\). I giocatori erano chiaramente consapevoli che alcuni numeri erano meno probabili di vincere, e infatti chiamavano \(3,4,17,18\) "cattive volte" e gli altri numeri "buone volte", e nessuno scommetteva mai sulle "cattive volte". La corrente espressione italiana "questa è la volta buona" deriva proprio da qui. Un aspetto interessante del gioco è che per ogni livello di rischio su cui si vuole scommettere, si possono scegliere due diversi numeri che comportano una perdita (o un guadagno) diverso. Per esempio se si vuole scommettere su un evento che ha probabilità circa \(10\%\), si può scegliere \(8\) o \(13\), ognuno con una probabiltà di successo \(21/216\approx 9,72\%\).


con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;

el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.

Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa. Come Tom Cruise alle Olimpiadi...

Quiv’ era l’Aretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte, Ghino di Tacco era lo pseudonimo usato negli anni '80 da Bettino Craxi per i suoi articoli sull'Avanti, organo del partito socialista. Questo pseudonimo fu adottato in risposta ad Eugenio Scalfari che paragonò la sua politica alle scorribande banditesche di Ghino di Tacco.

e l’altro ch’annegò correndo in caccia.

Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.

Vidi conte Orso e l’anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com’ e’ dicea, non per colpa commisa;

Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
mentr’ è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia.

Come libero fui da tutte quante
quell’ ombre che pregar pur ch’altri prieghi,
sì che s’avacci lor divenir sante,

io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;

e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?».

Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;

ché cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;

e là dov’ io fermai cotesto punto,
non s’ammendava, per pregar, difetto,
perché ’l priego da Dio era disgiunto. Mi sembra di leggere in questo scambio tra Dante e Virgilio un tentativo di Dante non del tutto riuscito di riconciliare ciò che non è riconciliabile, e cioè che Virgilio è vissuto prima di Cristo e la dottrina su cui si incardina il purgatorio è non solo basata sul cristianesimo, ma anzi piuttosto recente. Virgilio dà due argomenti: il primo mi pare veramente parecchio debole, perché per difendere l'affermazione che "decreto del cielo" non è "piegato" da "orazion", dice che dopo tutto, anche se fosse piegato un po', non sminuirebbe ("non s'avvalla") il giudizio divino. Questo mi sembra dopo tutto un'ammissione che allora quello che aveva scritto non era proprio sempre vero, nonostante la prima reazione è stata quella di difenderlo ("La mia scrittura è piana"). Il secondo argomento è del tutto diverso e dice che le preghiere pagane non potevano avere effetto perché non arrivavano al Dio vero. Questo mi pare più logico e la risposta dovrebbe essere basata solo su questo, cioè avrebbe dovuto dire "ma che c'entra quello che ho scritto io, io parlavo dei dei pagani che erano falsi e bugiardi". Inoltre non credo che i pagani prima del cristianesimo avevano la concezione dell'inferno e del paradiso e che pregavano che i loro morti potessero andare in paradiso, anche se veramente non ne so granché sull'argomento. Il concetto stesso di "preghiera" era probabilmente ben diverso. Penso che "pregavano" (facevano sacrifici su qualche altare?) per poter vincere una battaglia, o cose simili. Ma mi sembra che Dante vuole a tutti i costi rendere "cristiano" Virgilio, e vuole dare ai suoi versi dell'Eneide quasi un significato profetico, da interpretarsi secondo la dottrina cristiana.

Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto. Questa terzina sembra proprio che confermi la mia impressione che i due argomenti di Virgilio non erano granché. Sembra che lui si renda conto che si era un po' arrampicato sugli specchi, e dice, "ma, veramente, lascia perdere per ora perché io non ne so granché, casomai chiedilo a Beatrice dopo".

Non so se ’ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice».

E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta,
ché già non m’affatico come dianzi,
e vedi omai che ’l poggio l’ombra getta».

«Noi anderem con questo giorno innanzi»,
rispuose, «quanto più potremo omai;
ma ’l fatto è d’altra forma che non stanzi.

Prima che sie là sù, tornar vedrai
colui che già si cuopre de la costa,
sì che ’ suoi raggi tu romper non fai.

Ma vedi là un’anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne ’nsegnerà la via più tosta».

Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!

Ella non ci dicëa alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,

ma di nostro paese e de la vita
ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava
«Mantüa . . . », e l’ombra, tutta in sé romita,

surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.

Ahi serva Italia, di dolore ostello, È stato osservato che nel Canto VI dell'Inferno c'è un'invettiva contro Firenze, nel Canto VI del Purgatorio un'invettiva contro l'Italia, e nel Canto VI del Paradiso un'invettiva contro l'impero. Probabilmente è intenzionale questo allargare l'orizzonte nel procedere dall'Inferno al Paradiso. Ma chissà se c'è un significato nell' avere scelto sempre il Canto VI?
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!

Quell’ anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;

e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.

Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.

Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’ esso fora la vergogna meno.

Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,

guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.

O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,

giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!

Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’ è oscura!

Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m’accompagne?».

Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama. Qui sembra esserci una specie di gioco di parole. Notare che nelle ultime quattro terzine, "vieni" è stato ripetuto cinque volte. E in questo verso Dante sembra che voglia quasi fare una battuta, dicendo: vieni, vieni, vieni, vieni, vieni... e se non vieni (doppio senso con "move"), allora "a vergognar ti vien", cioé usa di nuovo la parola ma con diverso significato.


E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?

Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.

Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.

Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno

verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.

Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!

E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,

ma con dar volta suo dolore scherma.




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