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Mappa dell'inferno Dantesco |
Mappa del Purgatorio |
Vittorio Gassman legge Dante |
Questo canto è dominato da due personaggi: l'angelo nocchiero, e l'amico di Dante Casella. Mentre il sole sorge sul paesaggio del Purgatorio (agli antipodi di Gerusalemme), Dante e Virgilio vedono arrivare una veloce navicella che si rivela pilotata esclusivamente dalle ali di un angelo, e piena di più di cento spiriti in arrivo. Impariamo più tardi che il viaggio di queste barche celesti comincia alla foce del Tevere, dove si radunano le anime in attesa di essere traghettate al Purgatorio. L'angelo non parla e la sua unica azione è fare il segno della croce agli spiriti per dar loro il segnale che devono scendere dalla barca. Dante lo descrive come un "divino uccello" e "celestial nocchiero" il cui splendore è tale che non può essere guardato da vicino, ed è costretto ad abbassare gli occhi in sua presenza. Quando la nuova folla di anime appena arrivata è sbarcata e l'angelo è ripartito verso la foce del Tevere, Dante e Virgilio parlano con i nuovi arrivati che chiedono loro se sanno la strada per salire al monte. Quando le anime si accorgono che Dante è ancora vivo (perché lo vedono respirare), si affollano intorno a lui per guardarlo, e una di loro si fa avanti per abbracciarlo. Lui prova a ricambiare l'abbraccio ma le sue mani incontrano il vuoto perchè si tratta solo di un'ombra "vana fuor che ne l'aspetto". Poi riconosce il suo amico e poeta cantante Casella, che era morto già da parecchi mesi, e la prima domanda che gli fa Dante è come mai arriva al Purgatorio solo adesso. È qui che impariamo allora della "zona di attesa" alla foce del Tevere dove Casella ha dovuto aspettare finché l'angelo nocchiero decidesse di farlo salire sulla barca. Impariamo anche che a causa dell'indulgenza plenaria proclamata da Bonifacio VIII, negli ultimi tre mesi l'angelo faceva salire chiunque era in attesa. Dante chiede a Casella di consolare la sua anima affannata dall'arduo viaggio con "amoroso canto" (107). Casella intona una dolce canzone d'amore, e tutti (compreso Virgilio) si raccolgono intorno a lui ascoltando "tutti fissi e attenti" (118). Appare poi Catone Uticense cbe rimprovera le anime perché si stanno trastullando con canti e musica invece di affrettarsi a correre al monte che li purgherà degli ostacoli che impediscono loro di vedere Dio. Il canto si conclude con il disperdersi delle anime così rimproverate, che viene paragonato al fuggire via di un gruppo di colombi se appare qualcosa che li spaventa.
Già era ’l sole a l’orizzonte giunto
lo cui meridïan cerchio coverchia
Ierusalèm col suo più alto punto;
e la notte, che opposita a lui cerchia,
uscia di Gange fuor con le Bilance,
che le caggion di man quando soverchia;
sì che le bianche e le vermiglie guance,
là dov’ i’ era, de la bella Aurora
per troppa etate divenivan rance.
Nell' introduzione alla sua lettura di questo canto, Vittorio Gassman parla di come nel Purgatorio si nota subito
una grande "sensibilità cromatica", con frequenti accenni a svariati colori che risaltano nella descrizione del paesaggio e delle cose che vede Dante.
Senz'altro questo si vede in questa terzina, dove si parla di bianco, vermiglio e arancione, e poi fra poco al verso 14 di rosso. I colori e la grande abbondanza di luce
sono in grande contrasto con la nera oscurità dell'inferno.
Noi eravam lunghesso mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra ’l suol marino,
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che ’l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com’ io un poco ebbi ritratto
l’occhio per domandar lo duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto.
Poi d’ogne lato ad esso m’appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscìo.
Lo mio maestro ancor non facea motto,
mentre che i primi bianchi apparver ali;
allor che ben conobbe il galeotto,
gridò: «Fa, fa che le ginocchia cali.
Ecco l’angel di Dio: piega le mani;
omai vedrai di sì fatti officiali.
Vedi che sdegna li argomenti umani,
sì che remo non vuol, né altro velo
che l’ali sue, tra liti sì lontani.
Vedi come l’ha dritte verso ’l cielo,
trattando l’aere con l’etterne penne,
che non si mutan come mortal pelo».
Poi, come più e più verso noi venne
l’uccel divino, più chiaro appariva:
per che l’occhio da presso nol sostenne,
ma chinail giuso; e quei sen venne a riva
con un vasello snelletto e leggero,
tanto che l’acqua nulla ne ’nghiottiva.
Questo ci ricorda le parole di Caronte in Inferno, III, 93: "più lieve legno convien che ti porti"
Da poppa stava il celestial nocchiero,
tal che faria beato pur descripto;
e più di cento spirti entro sediero.
‘In exitu Isräel de Aegypto’
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.
Poi fece il segno lor di santa croce;
ond’ ei si gittar tutti in su la piaggia:
ed el sen gì, come venne, veloce.
La turba che rimase lì, selvaggia
parea del loco, rimirando intorno
come colui che nove cose assaggia.
Da tutte parti saettava il giorno
lo sol, ch’avea con le saette conte
di mezzo ’l ciel cacciato Capricorno,
quando la nova gente alzò la fronte
ver’ noi, dicendo a noi: «Se voi sapete,
mostratene la via di gire al monte».
E Virgilio rispuose: «Voi credete
forse che siamo esperti d’esto loco;
ma noi siam peregrin come voi siete.
Ho trovato la scena descritta nelle due terzine 58-63 quasi comicamente quotidiana soprattutto quando inserita nel
contesto dell'eternità: siamo nel Purgatorio,
dove gli spiriti umani si devono purificare per poter accedere a Dio...però appena arrivati sono come nuovi turisti che non sanno come arrivare al loro albergo e chiedono
a due passanti per strada se gli possono indicare la strada...È stato detto che parte della grandezza di Dante è proprio abbinare il sublime ed ineffabile all'ordinario quotidiano,
immediatamente in sintonia con la vita di tutti i giorni del lettore.
Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco,
per altra via, che fu sì aspra e forte,
che lo salire omai ne parrà gioco».
L’anime, che si fuor di me accorte,
per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo,
Quindi le anime non respirano. Però in Inferno Canto XXXIV, 83, Virgilio è ansimante dalla fatica. Vedi anche la nota al verso 81.
maravigliando diventaro smorte.
E come a messagger che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo,
così al viso mio s’affisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi oblïando d’ire a farsi belle.
Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Paragonare a quando invece Dante si avvinghia al collo di Virgilio nel Canto XXXIV (o anche nel Canto XVII a cavallo di Gerione).
Mi pare ovvio che Dante non fa nessun tentativo di dare una descrizione coerente di come sono fatte le anime che incontra nell'aldilà. Questa
non si può abbracciare perché non è altro che un'ombra senza nessun attributo fisico o corporeo. E Bocca degli Abati nel Canto XXXII dell'Inferno ha capelli che gli acchiappa e strappa...Chiaramente gli attributi fisici delle anime si presumono essere quelli compatibili con la scena che vuole descrivere. Senz'altro la poesia viene prima qualunque altra considerazione.
Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
per che l’ombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse ch’io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.
Rispuosemi: «Così com’ io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
però m’arresto; ma tu perché vai?».
«Casella mio, per tornar altra volta
là dov’ io son, fo io questo vïaggio»,
diss’ io; «ma a te com’ è tanta ora tolta?».
Ed elli a me: «Nessun m’è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m’ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
Questo è un riferimento all'indulgenza plenaria dichiarata da Papa Bonifacio VIII il precedente Natale. Come ha osservato Alessandro Barbero,
a quei tempi si potevano pure mettere i papi all'inferno senza per questo minimamente incrinare la convinzione nella validità di tutta la dottrina e i dogmi della Chiesa,
compreso il fatto che il papa rimaneva il papa e le sue proclamazioni su articoli di fede andavano prese alla lettera.
chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond’ io, ch’era ora a la marina vòlto
dove l’acqua di Tevero s’insala,
La centralità di Roma all'interno della Cristianità (e quindi di tutto l'universo) riemerge qui. Cfr. Inferno, Canto II, 20-24.
benignamente fu’ da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta l’ala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala».
E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!».
‘Amor che ne la mente mi ragiona’
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Dopo l'introduzione dei colori, appare qui per la prima volta la musica propriamente detta, che nell'inferno non è mai menzionata direttamente.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?
Questo rimprovero di Catone Uticense per il fatto che le anime perdono tempo soffermandosi a sentire musica e poesia rivela
un soprendente (per me) atteggiamento che contrappone quelle belle arti con la spiritualità, come fossero cose disdicevoli.
Mi ricorda quasi l'atteggiamento dei musulmani...
qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto».
Come quando, cogliendo biado o loglio,
li colombi adunati a la pastura,
queti, sanza mostrar l’usato orgoglio,
se cosa appare ond’ elli abbian paura,
subitamente lasciano star l’esca,
perch’ assaliti son da maggior cura;
così vid’ io quella masnada fresca
lasciar lo canto, e fuggir ver’ la costa,
com’ om che va, né sa dove rïesca;
né la nostra partita fu men tosta.
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