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Mappa dell'inferno Dantesco |
Mappa del Purgatorio |
Vittorio Gassman legge Dante |
Io era già da quell’ ombre partito,
e seguitava l’orme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando ’l dito,
una gridò: «Ve’ che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca!».
Li occhi rivolsi al suon di questo motto,
e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur me, e ’l lume ch’era rotto.
«Perché l’animo tuo tanto s’impiglia»,
disse ’l maestro, «che l’andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;
ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l’un de l’altro insolla».
Che potea io ridir, se non «Io vegno»?
Dissilo, alquanto del color consperso
che fa l’uom di perdon talvolta degno.
E ’ntanto per la costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco,
cantando ‘Miserere’ a verso a verso.
Quando s’accorser ch’i’ non dava loco
per lo mio corpo al trapassar d’i raggi,
mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;
e due di loro, in forma di messaggi,
corsero incontr’ a noi e dimandarne:
«Di vostra condizion fatene saggi».
E ’l mio maestro: «Voi potete andarne
e ritrarre a color che vi mandaro
che ’l corpo di costui è vera carne.
Se per veder la sua ombra restaro,
com’ io avviso, assai è lor risposto:
fàccianli onore, ed esser può lor caro».
Vapori accesi non vid’ io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole d’agosto,
che color non tornasser suso in meno;
e, giunti là, con li altri a noi dier volta,
come schiera che scorre sanza freno.
Che contrasto con le anime pigre del canto precedente! Forse c'è un motivo che diventerà chiaro in seguito. La mia prima reazione è stata che si deve trattare
di anime in ben diverse circostanze di Belacqua.
«Questa gente che preme a noi è molta,
e vegnonti a pregar», disse ’l poeta:
«però pur va, e in andando ascolta».
«O anima che vai per esser lieta
con quelle membra con le quai nascesti»,
venian gridando, «un poco il passo queta.
Guarda s’alcun di noi unqua vedesti,
sì che di lui di là novella porti:
deh, perché vai? deh, perché non t’arresti?
Mi sembra poco chiara la posizione di Dante rispetto alle anime che gli vengono incontro. Ai versi 22, 23 impariamo che questa schiera di anime è
"innanzi" a Dante e Virgilio, quindi io
immagino che erano un po' più in su sulla costa della montagna, e immagino anche che i due messaggeri mandati
dagli altri tornavano in giù per andare verso Dante. Poi Virgilio dice a
Dante (v 45) "pur va", quindi "continua a camminare". Mi sembra quindi che continuando a camminare Dante si
sarebbe avvicinato alla schiera, ma questo sembra contraddetto dalle grida
"deh, perché vai? deh, perché non t’arresti? ". Non ho finora trovato nessun commentatore che
discute come mai le anime gli chiedono di fermarsi. Ci sarebbe poi anche da notare che le anime
sono state appena descritte (ai versi 37-39) come più veloci delle stelle cadenti o dei fulmini
che attraversano le nuvole d'agosto, quindi come mai si preoccupano tanto che Dante non si fermi?
Noi fummo tutti già per forza morti,
e peccatori infino a l’ultima ora;
quivi lume del ciel ne fece accorti,
sì che, pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati,
che del disio di sé veder n’accora».
E io: «Perché ne’ vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma s’a voi piace
cosa ch’io possa, spiriti ben nati,
voi dite, e io farò per quella pace
che, dietro a’ piedi di sì fatta guida,
di mondo in mondo cercar mi si face».
E uno incominciò: «Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che ’l voler nonpossa non ricida.
Ond’ io, che solo innanzi a li altri parlo,
ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo,
che tu mi sie di tuoi prieghi cortese
in Fano, sì che ben per me s’adori
pur ch’i’ possa purgar le gravi offese.
Questo è il quarto incontro di Dante e Virgilio con le anime del purgatorio (escludendo Catone Uticense al primo canto). Prima il gruppo con Casella al Canto II, poi
il gruppo con Manfredi al Canto III, e poi Belacqua al Canto IV. Mi sembra chiaro che il tema dominante rivelato da questi incontri
sia il grande desiderio delle anime di poter arrivare in paradiso più in fretta possibile
in seguito alle preghiere dei vivi (che siano però in grazia di Dio, che sennò le preghiere non saranno
neanche udite in cielo...). Per contrasto, la prima cosa che i dannati dell'inferno volevano sapere erano notizie del mondo presente dei vivi, perché potevano
vedere solo il futuro. Forse questo chiaro contrasto serve a far capire che mentre i dannati dell'inferno stavano meglio da vivi che da morti, e quindi rimpiangono
il mondo dei vivi,
alle anime del purgatorio non gli interessa più per niente,
eccetto che per ricevere preghiere che gli facciano accorciare la permanenza. E finora perlomeno non sappiamo quanto queste anime sanno del presente
mondo dei vivi.
Quindi fu’ io; ma li profondi fóri
ond’ uscì ’l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
là dov’ io più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far, che m’avea in ira
assai più là che dritto non volea.
Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira,
quando fu’ sovragiunto ad Orïaco,
ancor sarei di là dove si spira.
Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco
m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’ io
de le mie vene farsi in terra laco».
Poi disse un altro: «Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l’alto monte,
con buona pïetate aiuta il mio!
Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte».
E io a lui: «Qual forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?».
«Oh!», rispuos’ elli, «a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.
Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirò vero, e tu ’l ridì tra ’ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ’l mi toglie;
ma io farò de l’altro altro governo!”.
La situazione è questa:
"Buonconte da Montefeltro, figlio del conte Guido
(cfr. Inf. c. XXVII). Nel 1289, fu con i ghibellini di Arezzo contro
i Fiorentini e partecipò alla battaglia di Campaldino, (nella quale
combatté anche Dante), perdendo la vita sul campo. II suo corpo
non fu più ritrovato."
Mediasoft Divina Commedia
Su questi fatti di cronaca Dante ha costruito un storia fantastica. Buonconte ferito a morte arrivò barcollando e sanguinante fino a dove il fiume Archiano si
immette nell'Arno, e qui cadde a terra e morì. Ma prima di morire si pentì dei suoi peccati e si affidò alla misericordia di Dio, componendo le sue braccia sul petto per
formare una croce. Arrivarono insieme un angelo di Dio e un demonio dall'inferno, ma l'angelo ebbe il sopravvento e lo portò con se. Allora il demonio incollerito, gridando che
solo per una "lagrimetta" di pentimento gli era stata sottratta un'anima, per vendicarsi dice questo all'angelo: tu ti sei portato via la parte eterna di costui, ma io farò scempio
del suo corpo morto. E usando il suo potere soprannaturale, fa sì che arrivi una grossa bufera di pioggia con un'alluvione che trascina il corpo di Buonconte nell'Arno e poi
lo sommerge per sempre sul fondo con i detriti trascinati dalla piena.
Un aspetto interessante di questa storia è che Buonconte di Montefeltro era il figlio di Guido di Montelfeltro, incontrato e principale protagonista al canto XXVII dell'inferno,
dove una simile battaglia fra un demonio e San Francesco per la sua anima viene invece vinta dal demonio con un ragionamento di logica.
Mi pare anche da notare ancora una volta la magistrale scelta di parole di Dante ai versi 104 - 108, che raccontano essenzialmente tutta la storia con solo
cinque endecasillabi.
Ben sai come ne l’aere si raccoglie
quell’ umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove ’l freddo il coglie.
Giunse quel mal voler che pur mal chiede
con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento
per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come ’l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento,
sì che ’l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a’ fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne,
ver’ lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.
Ci sono due modi in un certo senso contrapposti in cui vedo la grandezza di Dante come poeta. Uno
è la capacità di condensare e comunicare con efficacissime parole e in pochi versi un'intera storia piena di
sfumature e di emozioni, come appena visto ai versi 104 - 108. L'altra è quasi l'opposto: prendere dei fatti abbastanza semplici e banali
(in questo caso un acquazzone che fa ingrossare i fiumi) e trasformarli in una storia lunga e piena di dettagli, immagini e similitudini,
come fa nei versi 109 - 123
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse».
«Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via»,
seguitò ’l terzo spirito al secondo,
«ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ’nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma».
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