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Furio legge Dante
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In questo canto Dante e Virgilio non incontrano nessun altro spirito, e fanno progresso con il loro viaggio. Dante racconta che mentre sente i raggi del sole
colpirlo sul naso, una raggio di luce molto più forte gli batte sulla fronte, tanto che deve alzare le mani per schermarsi gli occhi. Si tratta della luce emanata da un angelo che invita
i viaggiatori a salire una scala meno ripida delle precedenti, e che porta al girone successivo. Virgilio gli dice di non meravigliarsi se rimane ancora abbagliato dallo splendore dei messaggeri celesti, e lo riassicura che fra non molto sarà in grado di tollerare la loro vista in modo naturale. Salendo le scale, Dante pensa di cogliere l'occasione per domandare chiarificazioni a Virgilio, perché sta ripensando alle parole di Guido del Duca incontrato al Canto prededente. Gli chiede che volesse dire "lo spirto di Romagna"
menzionando "divieto" e "consorte". Allora Virgilio comincia una spiegazione dicendo che la bramosia dei terreni possedimenti ha come conseguenza l'invidia con successiva infelicità, mentre se i desideri degli uomini si rivolgessero alle cose celesti, questo non succederebbe, perché fra i beati, più gente possiede un bene, e più tutti sono contenti.
Questa spiegazione non ha successo con Dante che si lamenta di non essere contento della risposta, e di non riuscire a capire come è possibile che un bene posseduto da molte
persone renda ognuno più ricco di quanto sarebbe se lo stesso bene fosse invece posseduto da pochi. Virgilio tenta una seconda spiegazione, ripetendo che più gente
"là su s'intende, più v'è da
bene amare, a più vi s'ama". Conclude poi dicendo che se questo ancora non soddisfa Dante, può aspettare di vedere Beatrice, che gli toglierà qualunque "brama". Gli dice
poi di assicurarsi che le cinque piaghe rimanenti sulla sua fronte si risanino presto, come si sono già risanate le prime due.
Prima che Dante possa ripondere di essere appagato dalla seconda risposta, si trova arrivato nel girone successivo, e improvvisamente gli appare un' "estatica" visione.
Prima vede l'episodio del ritrovamento di Gesù nel tempio da parte dei suoi genitori, poi vede l' adirata moglie di Pisistrato (re di Atene) che chiede al marito
di vendicarsi di colui che arditamente abbracciò in pubblico la loro figlia. Questi episodi servono ad illustrare la mansuetudine: Maria reagì "con atto dolce di madre"
e Pisistrato rispose alla moglie "benigno e mite" e con "viso temperato". In una terza visione Dante vede una folla piena d'ira lapidare un giovanetto (Santo Stefano), il quale
morendo si rivolge a Dio chiedendogli di perdonare i suoi persecutori.
Poi Dante esce da quello stato di estatico stupore e sente Virgilio chiedergli che ha, perché lo ha visto camminare per mezza lega "velando gli occhi e con le gambe avvolte". Ma quando Dante cerca di spiegargli le visioni che ha avuto, Virgilio lo interrompe dicendo di sapere già le sue "cogitazioni", e che gli aveva chiesto che aveva solo per spronarlo
all'azione, come si deve spronare chi si è da poco svegliato dal sonno. Mentre i due continuano a camminare nella luce della sera, vedono appressarsi uno scuro fumo da cui
non ci si può riparare, e che entro poco li priva sia della vista che dell'aria pura.
Quanto tra l’ultimar de l’ora terza
e ’l principio del dì par de la spera
che sempre a guisa di fanciullo scherza,
tanto pareva già inver’ la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
vespero là, e qui mezza notte era.
Queste due terzine iniziali sono una descrizione complicata di quello
che dice in modo semplice il verso 6: in Purgatorio erano
le tre del pomeriggio, e in Italia era mezzanotte. Secondo i canoni del tempo, le 12 ore da mezzanotte a mezzogiorno
si dividono in quattro periodi di
tre ore l'una. Quindi l' "ora terza" va dalle 6:00 alle 9:00. Il giorno comincia alle 6:00, quindi "tra l'ultimar dell'ora terza
e'l principio del dì" sono tre ore, però stranamente descritte in senso inverso.
I versi 1-5 dicono che lo stesso periodo di tre ore mancava
in Purgatorio per arrivare alla sera, cioè alle 18:00. Quindi in Purgatorio
erano le 15:00. Siccome Gerusalemme è agli antipodi, erano le 3:00 a Gerusalemme, e siccome l'Italia è tre ore indietro a Gerusalemme, in Italia era mezzanotte. Come dice Lucio Sbriccioli, "iI conto torna ma tutta l'immagine è macchinosa e inefficace."
Poi ci sarebbe da discutere: che ora era precisamente il "vespero"? Qui risulterebbe le 15:00. Raramente si trova un'ora precisa
nelle definizioni, ma in genere si riferisce al periodo fra le 15:00 e le 18:00.
Secondo me Dante aveva la propensione di fare questi calcoli precisi e intricati perché gli piacevano, ma
che non vanno granché d'accordo con la poesia. Mi fa pensare al poema di Samuel Taylor Coleridge, che ammirava i ragionamenti logici
della geometria euclidea, e in una lettera al fratello rese in versi una dimostrazione di geometria, che secondo me non serve né a chi vuole
capire la dimostrazione, né a chi vuole leggere un po' di poesia...
Nel complesso queste due terzine sono state criticate dai commentatori. Scrive Nicola Fosca che i critici hanno stigmatizzato
la procedura di queste terzine, e aggiunge anche che sono "tutto sommato in sintonia con la scarsa 'qualità poetica' del canto". C'è anche una
grossa discussione su cosa precisamente aveva in mente Dante con la "spera" e come si può paragonare il preciso e perfettamente prevedibile
movimento degli astri celesti agli scherzi di un fanciullo. Nicola Fosca fa però notare che nel 1904 il critico
U. Pedrazzoli propose che "spera" va intesa come
"specchio" e questo secondo lui riscatterebbe parecchio questi versi sfortunati. Questo è il passaggio completo scritto da Nicola Fosca:
U. Pedrazzoli (La sfortuna d'un bel verso della 'Divina Commedia', Roma, Ed. Italiana, 1904, p. 17) propose, ma senza approfondire l'argomento, il significato di “specchio”, significato che, in realtà, è uno di quelli documentatamente convogliati da spera. Tale ipotesi esplicativa è stata ripresa da Fujitani, che ricorda come il sole sia stato già paragonato ad uno specchio a Purg. IV.62 e sia considerato come un 'piccolo specchio' che riflette la luce divina. Si avrebbe così una sorta di “gioco planetario”, per cui il sole, mutando l'inclinazione del suo specchio, irraggia le varie regioni della terra, gioco paragonabile al gioco del bambino che scherza cambiando l'inclinazione dello specchio e provocando il riflesso della luce. In definitiva, “quando fra il concetto di luce e di sole si inserisce quello di specchio e lo si pone al centro del loro rapporto, spera come specchio, possedendo i significati di entrambi, può indicare senza forzatura il sole come metafora del soggetto e, al contempo, alludere alla luce riflessa come suo attributo e completarne la modalità unendosi alla similitudine del fanciullo. Specchio solare sembra proprio risolvere tutte le difficoltà simultaneamente, suscitando nel contempo un'immagine di vivida freschezza. Spera come fusione di immagini molteplici: l'immagine dello specchio si innesta in successione su quella del sole e della luce riflessa, come in una reazione a catena” (M. Fujitani, “Dalla legge ottica alla poesia”: Studi danteschi, 1989, pp. 169-170).
E i raggi ne ferien per mezzo ’l naso,
perché per noi girato era sì ’l monte,
che già dritti andavamo inver’ l’occaso,
quand’ io senti’ a me gravar la fronte
a lo splendore assai più che di prima,
e stupor m’eran le cose non conte;
ond’ io levai le mani inver’ la cima
de le mie ciglia, e fecimi ’l solecchio,
che del soverchio visibile lima.
Come quando da l’acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l’opposita parte,
salendo su per lo modo parecchio
a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
sì come mostra esperïenza e arte;
così mi parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
per che a fuggir la mia vista fu ratta.
«Che è quel, dolce padre, a che non posso
schermar lo viso tanto che mi vaglia»,
diss’ io, «e pare inver’ noi esser mosso?».
«Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia
la famiglia del cielo», a me rispuose:
«messo è che viene ad invitar ch’om saglia.
Tosto sarà ch’a veder queste cose
non ti fia grave, ma fieti diletto
quanto natura a sentir ti dispuose».
Poi giunti fummo a l’angel benedetto,
con lieta voce disse: «Intrate quinci
ad un scaleo vie men che li altri eretto».
Noi montavam, già partiti di linci,
e ‘Beati misericordes!’ fue
cantato retro, e ‘Godi tu che vinci!’.
Lo mio maestro e io soli amendue
suso andavamo; e io pensai, andando,
prode acquistar ne le parole sue;
e dirizza’mi a lui sì dimandando:
«Che volse dir lo spirto di Romagna,
e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?».
È stato notato che queste spiegazioni delle parole di Guido del Duca ai versi 86-87 del Canto XIV (o gente umana, perché poni ’l core
là ’v’ è mestier di consorte divieto?) servivano, perché quei versi sono difficili da capire, e forse Dante se ne era reso conto.
Per ch’elli a me: «Di sua maggior magagna
conosce il danno; e però non s’ammiri
se ne riprende perché men si piagna.
Perché s’appuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
invidia move il mantaco a’ sospiri.
Ma se l’amor de la spera supprema
torcesse in suso il disiderio vostro,
non vi sarebbe al petto quella tema;
ché, per quanti si dice più lì ‘nostro’,
tanto possiede più di ben ciascuno,
e più di caritate arde in quel chiostro».
«Io son d’esser contento più digiuno»,
diss’ io, «che se mi fosse pria taciuto,
e più di dubbio ne la mente aduno.
Com’ esser puote ch’un ben, distributo
in più posseditor, faccia più ricchi
di sé che se da pochi è posseduto?».
Ed elli a me: «Però che tu rificchi
la mente pur a le cose terrene,
di vera luce tenebre dispicchi.
Quello infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com’ a lucido corpo raggio vene.
Tanto si dà quanto trova d’ardore;
sì che, quantunque carità si stende,
cresce sovr’ essa l’etterno valore.
E quanta gente più là sù s’intende,
più v’è da bene amare, e più vi s’ama,
e come specchio l’uno a l’altro rende.
E se la mia ragion non ti disfama,
vedrai Beatrice, ed ella pienamente
ti torrà questa e ciascun’ altra brama.
Senz'altro questo ricorda i versi 43-48 del Canto VI. Come aveva fatto lì, qui Virgilio, apparentemente poco sicuro delle sue stesse spiegazioni,
indirizza Dante ai futuri chiarimenti della più competente Beatrice.
Procaccia pur che tosto sieno spente,
come son già le due, le cinque piaghe,
che si richiudon per esser dolente».
Com’ io voleva dicer ‘Tu m’appaghe’,
vidimi giunto in su l’altro girone,
sì che tacer mi fer le luci vaghe.
Ivi mi parve in una visïone
estatica di sùbito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone;
e una donna, in su l’entrar, con atto
dolce di madre dicer: «Figliuol mio,
perché hai tu così verso noi fatto?
Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo». E come qui si tacque,
ciò che pareva prima, dispario.
Indi m’apparve un’altra con quell’ acque
giù per le gote che ’l dolor distilla
quando di gran dispetto in altrui nacque,
e dir: «Se tu se’ sire de la villa
del cui nome ne’ dèi fu tanta lite,
e onde ogne scïenza disfavilla,
vendica te di quelle braccia ardite
ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto».
E ’l segnor mi parea, benigno e mite,
risponder lei con viso temperato:
«Che farem noi a chi mal ne disira,
se quei che ci ama è per noi condannato?»,
Poi vidi genti accese in foco d’ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
gridando a sé pur: «Martira, martira!».
E lui vedea chinarsi, per la morte
che l’aggravava già, inver’ la terra,
ma de li occhi facea sempre al ciel porte,
orando a l’alto Sire, in tanta guerra,
che perdonasse a’ suoi persecutori,
con quello aspetto che pietà diserra.
Quando l’anima mia tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere,
io riconobbi i miei non falsi errori.
Questi "non falsi errori" vanno paragonati agli errori di Inferno, III, 31: "E io ch’avea d’error la testa cinta".
Nota Nicola Fosca che Dante ha fatto grande progresso, e ora i suoi errori, ache se oggettivamente tali (perché le sue visioni non corrispondevano alla realtà), sono "non falsi",
perché "contemporaneamente sono vere, immagini di realtà storiche", percepite da lui grazie all'intervento di un "lume" del "ciel".
Lo duca mio, che mi potea vedere
far sì com’ om che dal sonno si slega,
disse: «Che hai che non ti puoi tenere,
ma se’ venuto più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o sonno piega?».
«O dolce padre mio, se tu m’ascolte,
io ti dirò», diss’ io, «ciò che m’apparve
quando le gambe mi furon sì tolte».
Ed ei: «Se tu avessi cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
le tue cogitazion, quantunque parve.
Ciò che vedesti fu perché non scuse
d’aprir lo core a l’acque de la pace
che da l’etterno fonte son diffuse.
Non dimandai “Che hai?” per quel che face
chi guarda pur con l’occhio che non vede,
quando disanimato il corpo giace;
ma dimandai per darti forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
ad usar lor vigilia quando riede».
Noi andavam per lo vespero, attenti
oltre quanto potean li occhi allungarsi
contra i raggi serotini e lucenti.
Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
né da quello era loco da cansarsi.
Questo ne tolse li occhi e l’aere puro.
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