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Questo è il Canto dedicato al Limbo, il primo cerchio dell'inferno vero e proprio. In questo cerchio si trovano coloro che non furono battezzati, oppure vissero prima del Cristianesimo. Però, come spiega Virgilio, ci sono delle eccezioni per questi ultimi. Dice infatti che poco dopo essere lui arrivato lì, ci vide venire "un possente" (Gesù Cristo), che ne estrasse le anime dei più noti personaggi del Vecchio Testamento, a cominciare da Adamo (senza Eva a quanto pare...). Ogni anima che si trova qui "sol per pena ha la speranza cionca", come dirà più tardi al Canto IX, cioè unica sofferenza che hanno è la mancanza della speranza di poter mai vedere Dio. Ma non sono soggetti a nessuna punizione diretta. Uno di quelli che sta nel Limbo è proprio Virgilio stesso. Infatti, poco dopo essere entrati, si sente una voce dire "Onorate l’altissimo poeta; l’ombra sua torna, ch’era dipartita". Poi appaiono "quattro grand'ombre", e sono le anime di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Questi si mettono a conversare con Virgilio e poco dopo invitano anche Dante ad unirsi al loro gruppo, cosicché diventa il "sesto fra cotanto senno". Dante si sente onorato, e quando poi, insieme al gruppo, attraversa le sette mura che cingono un "nobile castello" e gli vengono mostrati "gli spiriti magni" (cioè i grandi personaggi del passato) che risiedono lì, dichiara che "del vedere in me stesso m’essalto". Segue quindi una lunga lista dei personaggi storici più importanti che vede, che comprende condottieri, poeti, letterari, filosofi e scienziati. Alla fine conclude dicendo che non potrebbe nominarli tutti, perché "molte volte al fatto il dir vien meno." Dante e Virgilio si staccano dal gruppo e prendono la strada che conduce al secondo cerchio, fuori della luce e nell'oscurità.
Ruppemi l’alto sonno ne la testa
un greve truono, sì ch’io mi riscossi
come persona ch’è per forza desta;
e l’occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov’ io fossi.
Vero è che ’n su la proda mi trovai
de la valle d’abisso dolorosa
che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.
Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.
«Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
cominciò il poeta tutto smorto.
«Io sarò primo, e tu sarai secondo».
E io, che del color mi fui accorto,
dissi: «Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?».
Ed elli a me: «L’angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.
Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che l’abisso cigne.
Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l’aura etterna facevan tremare;
ciò avvenia di duol sanza martìri,
Dante fa ripetutamente (42, IX )
chiara distinzione fra le condizioni dei dannati coi 'martìri' di tipo fisico (essere attuffati nel fango, o chiusi dentro
tombe arroventate), e quelle invece puramente di 'duolo' spirituale, dovuto alla mancanza della speranza di poter mai vedere Dio. Quelli che stanno nel Limbo hanno solo
il secondo tipo di destino. Ci sono quindi tre possibili condizioni umane: il dolore, la felicità, e l'assenza di entrambi.
ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
d’infanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi;
e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Quindi Virgilio sta nel Limbo non solo per non essere battezzato, ma anche per 'non adorar debitamente a Dio', che
potrebbe interpretarsi per non essere osservante delle leggi del Vecchio Testamento. Questo si accorderebbe con I 125 ('perché i' fu' ribellante alla sua legge'). Pero'
allora si dovrebbe dedurre che invece tutti coloro che, pur non essendo battezzati, 'adorar debitamente a Dio' (presumibilmente tutti i buoni osservanti del
Vecchio Testamento) dovrebbero essere salvati. Ma questo non sembra accordarsi granché con il verso 63 in questo Canto.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio».
Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.
«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
comincia’ io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
«uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?».
E quei che ’ntese il mio parlar coverto,
Ci sono parecchie cose da leggere fra le righe qui, ed e' un esempio dei ragionamenti convoluti e cerebrali che spesso fa Dante: secondo la
teologia del tempo, Gesù Cristo poco dopo la sua morte andò all'inferno per prendere alcuni distinti personaggi del Vecchio Testamento e portarli in paradiso.
Ma tale storia (di cui immagino non si trovi menzione nelle scritture) era forse messa in discussione da alcuni, e Dante stesso vuole avere conferma che sia vera.
Quindi fa la domanda a Virgilio, ma senza esplicitamente dire la vera ragione (che era per avere conferma di quello che si dice). Ma Virgilio si rende conto del motivo della domanda.
rispuose: «Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
Trasseci l’ombra del primo parente,
d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moïsè legista e ubidente;
Abraàm patrïarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co’ suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé,
e altri molti, e feceli beati.
E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati».
Quindi, nonostante dica 'altri molti', sembra chiaro che solo una selezione di quelli vissuti prima di Cristo siano stati salvati, sia che
'adorar debitamente a Dio' o no.
Non lasciavam l’andar perch’ ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand’ io vidi un foco
ch’emisperio di tenebre vincia.
Di lungi n’eravamo ancora un poco,
ma non sì ch’io non discernessi in parte
ch’orrevol gente possedea quel loco.
«O tu ch’onori scïenzïa e arte,
questi chi son c’hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?».
E quelli a me: «L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che sì li avanza».
Questo e' un esplicito accenno al fatto che la reputazione ottenuta nel mondo dalle persone decisamente influenza il giudizio divino. Dopo tutto
va bene d'accordo con la dottrina cristiana della preghiera per ottenere concessioni da Dio.
Intanto voce fu per me udita:
«Onorate l’altissimo poeta;
l’ombra sua torna, ch’era dipartita».
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ ombre a noi venire:
sembianz’ avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».
Al lettore moderno può sembrare un po' vanitoso che Virgilio dica 'fanno bene a farmi onore', ma io penso che sia un'altro esempio
di come la lingua italiana sia cambiata. In italiano moderno, "fanno bene" a fare qualcosa è da considerarsi un po' un espressione che implica l'approvazione dell'azione.
Ma letteralmente, vuole solo dire che "fanno del bene" (perchè onorano la poesia in genere), che è senz'altro quello che Virgilio intendeva qui.
Così vid’ i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’ aquila vola.
Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e ’l mio maestro sorrise di tanto;
e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
Senz'altro nessuna falsa modestia da parte di Dante qui...ben lontano dal 'Ma io?...io...io...io" di II 31-33.
Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che ’l tacere è bello,
sì com’ era ’l parlar colà dov’ era.
Venimmo al piè d’un nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura,
difeso intorno d’un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne’ lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
Trovo molto ad effetto che le persone di grande autorità 'parlavan rado'.
Traemmoci così da l’un de’ canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti.
Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m’essalto.
La lista degli 'spiriti magni' che comincia qui ispira Dante al punto che si 'esalta', e si sente senz'altro la sua esaltazione
da come fa questa lista. Mi viene in mente la poesia 'Dei Sepolcri' di Ugo Foscolo che tutti a scuola abbiamo studiato:
"A egregie cose i forti animi accendono l'urne de' forti" e mi chiedo se
ai tempi ci facevano notare che ci devono essere stati questi versi di Dante nella mente di Foscolo.
I’ vidi Eletra con molti compagni,
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l’altra parte vidi ’l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi ’l Saladino.
Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
Aristotele non è citato per nome, nonostante chiaramente considerato il più importante. Forse non si riusciva proprio
a fare un endecasillabo adatto con il nome? Notare che alza le ciglia per vedere i filosofi, simboleggiante la posizione più alta della filosofia.
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’ ïo Socrate e Platone,
che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;
Democrito che ’l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs, che ’l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l’aura che trema.
E vegno in parte ove non è che luca.
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