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Manoscritto XIV secolo
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attribuito a Menghino Mezzani.
La Divina Commedia in HD
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Taciti, soli, sanza compagnia n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo, come frati minor vanno per via.
Vòlt’ era in su la favola d’Isopo lo mio pensier per la presente rissa, dov’ el parlò de la rana e del topo;
ché più non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’ che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia principio e fine con la mente fissa.
Le due terzine 4-9 non hanno chiara e immediata interpretazione, e molte proposte sono state fatti da svariati commentatori.
C'è anche l'imprecisione di Dante nell'attribuire questa favola ad Esopo, cosa però di cui va scusato perché così era creduto
ai suoi tempi. Per capire che vogliono dire questi versi, c'è bisogno naturalmente innanzitutto
di sapere che cosa racconta la favola in questione, e faccio
qui un compendio dei temi principali, ricavato dalla lettura di molteplici descrizioni della favola fatte dai commentatori (non ho letto la favola
originale).
Un topo voleva attraversare un ruscello, ma aveva paura dell'acqua. Allora una rana si offre di aiutarlo, e per rassicurarlo che non affogherà
gli fa legare una zampa a quella sua. Ma in realtà la rana ha malvagie intenzioni, perchè giunti nel mezzo del ruscello cerca di nuotare sott'acqua
trascinando il topo sotto per farlo affogare. Il topo si dibatte disperatamente per evitare di andare sott'acqua e un uccello rapace che passa lo nota e
rapidamente lo prende per mangiarselo. Ma essendo la rana legata al topo, l'uccello prende e divora anche la rana.
Un'altra cosa che bisogna sapere è che i due vocaboli 'mo' e 'issa' (entrambi di origine latina, e significanti 'adesso') erano
considerati sinonimi da Dante. 'Mo' è tuttora in uso un alcune regioni italiane (e senz'altro a Roma). Non so se 'issa' si usa da nessuna parte, ma
Umberto Bosco e Giovanni Reggio (1979) scrivono issa è voce lucchese e dell'Italia settentrionale.
In luce di queste premesse, una lettura di questi versi rivela che Dante vuole dire che la 'presente rissa' (da interpretare o come solo la rissa
finale fra Calcabrina e Alichino, o l'intero episodio del barattiere) è simile alla favola di Esopo come i vocaboli 'mo' e 'issa' sono simili
fra di loro. Siccome però in realtà il paragone non è certo perfetto, sembra che voglia in un certo senzo mettere le mani avanti e dice
'perlomeno se si considerano solo l'inizio e la fine, e se ci si pensa bene' ('se ben s’accoppia
principio e fine con la mente fissa').
A grandi linee, ci sono chiare analogie. La rana è maliziosa e mentitrice, ed inganna il topo con la sua offerta di aiutarlo, come il barattiere
ha ingannato i Malebranche con la sua offerta di sufolare per fare venire su i compagni. Calcabrina aveva anche cattive intenzioni quando
è volato dietro a Alichino e poi è finito nella pece con lui, così come la rana malvagia è finita divorata dall'uccello, insieme al topo.
Ma il diavolo è nei dettagli. Queste chiare analogie hanno il difetto che in una la rana è il barattiere e il topo sono i Malebranche, ma manca
il ruolo dell'uccello rapace, e il barattiere si salva in ogni caso, a differenza del topo.
Nell'altra la rana è Calcabrina, il topo Alichino, e la pece bollente è l'uccello rapace. Ma questo non va granché
col fatto che Calcabrina non aveva affatto cercato di ingannare Alichino, gli era subito volato dietro.
Le interpretazioni nel corso dei secoli sono state davvero tante, e includono Dante e Virgilio nel ruolo del topo, e anche una addirittura Virgilio nel
ruolo della rana.
Così scrive [Robert Hollander (2000-2007)]:
It seems sensible to believe that, as the protagonist reviews the events of the prior canto, he thinks of two things: the aptness of the fable to the situation of Ciampolo (mouse [Guyler, p. 32, points out that Ciampolo has already been compared to a mouse at Inf. XXII.58]), Alichino (frog), and Calcabrina (kite), as well as to his own: Dante (mouse), Virgil (frog), and the Malebranche (kite). Thus the beginning and the end of the fable are particularly apt to his situation: in order to reach the next bolgia he has tied himself to Virgil, and now the kite must be on its way. That Virgil should be cast in the role of the double-dealing frog seemed so unlikely that no one, until Guyler, pp. 35-40, suggested as much. While this writer agrees with him, the complexity of the passage, it should be noted, guarantees that its meaning will continue to be debated. For some of the disparate and confused responses see Hollander (“Virgil and Dante as Mind-Readers [Inferno XXI and XXIII],” Medioevo romanzo 9 [1984]), pp. 92-93, where, in an admittedly incomplete listing, one may find ten different interpretive versions of the correspondences among mouse, frog, and kite and either the various Malebranche and/or the various protagonists.
Interessante notare che ci sarebbe una versione della favola che andrebbe meglio d'accordo col paragone di Dante, se si considera il topo essere il
barattiere:
In the version of Marie de France, the fable comes to a different conclusion, one that more closely parallels the incident in the Commedia: while the mouse and the frog are struggling in the water, the kite swoops down and carries off the frog, setting the mouse at liberty. [Charles S. Singleton (1970-75)]
Riporto qui sotto il commento più recente cho ho trovato [Nicola Fosca (2003-2015)]
Nell'interpretare il richiamo dantesco alla favola della rana e del topo, i primi commentatori si trovarono in difficoltà: la spiegazione di Benvenuto (Calcabrina=rana, Alichino=topo, Barbariccia=nibbio) è evidentemente inesatta (infatti Barbariccia ed i suoi compagni si prodigano per sottrarre dalla pece i due diavoli impaniati), per cui i lettori successivi, come corrispondente del nibbio, sostituirono a Barbariccia la pece. Ed è questa l'interpretazione che, nel corso della secolare critica dantesca, ha goduto di maggior favore. Tuttavia, una chiara difficoltà resta insuperata: infatti, “il principio della favola descrive e sottolinea la loquacità fraudolenta della rana, che imbroglia deliberatamente il topo, che promette esplicitamente il proprio aiuto, che ha già in animo il tradimento. Tutto ciò non è in Calcabrina, che non scambia una parola, e tanto meno patti, con Alichino, e che solo spera dentro di sé che il barattiere la faccia franca per poter litigare col compagno, poiché, se Ciampolo fosse sfuggito, essi tutti sarebbero stati scherniti da un dannato, con beffa insopportabile (cfr. v. 14). Non abbiamo insomma quella violazione mentale preventiva del patto, che è il punto essenziale dell'inizio della favola” (G. Padoan, “Il Liber Esopi e due episodi dell'Inferno”: Studi danteschi, 1964, pp. 95-96). Di qui la proposta, seguendo le raccomandazioni del poeta, di raffrontare la rissa e la favola solo nelle rispettive parti iniziali e finali, senza cercare una puntuale corrispondenza fra i protagonisti dell'una ed i protagonisti dell'altra; Padoan ritiene perciò valida l'equiparazione Calcabrina=rana per la fine (Calcabrina finge di voler aiutare Alichino, ma in realtà vuole nuocergli), ma, per l'inizio, paragona alla rana imbrogliona l'imbroglione Ciampolo, che raggira i diavoli stringendo con loro un patto che sa in anticipo di violare. “È vero che la malizia della rana è rivolta al danno altrui, e quella di Ciampolo invece solo alla propria salvezza: ma quella sua abilità è la medesima con la quale in vita seppe tanto nuocere agli altri macchiandosi di peccato così turpe (cfr. Inf. XI.60)” (Ivi, pp. 100-101). Questa lettura, tuttavia, non dà ragione di quello che N.M. Larkin considera il punto più importante della favola: “la completa innocenza della vittima designata”, ossia il topo (“Another Look at Dante's Frog and Mouse”: Modern Language Notes, 1962, p. 98). Di conseguenza Larkin propone di sostituire a singoli personaggi “gruppi di personaggi”: in tal modo il topo corrisponderebbe a Dante e Virgilio, mentre la rana ai diavoli in generale (lo stesso in Andreoli, per il quale però Ciampolo rappresenterebbe il nibbio). Tuttavia, l'importante ruolo giocato dal Navarrese non può essere sottovalutato, tanto più che egli, nel canto precedente, è stato paragonato proprio ad un topo (v. 58); e circa il problema della “innocenza”, si potrebbe pensare che la primaria intenzione di Ciampolo sia, come l'intenzione del topo della favola, quella di 'traslocare' in un luogo ritenuto più idoneo. In tale prospettiva, acquista credito la proposta risalente a Guido da Pisa, per il quale Ciampolo corrisponde al topo, Alichino alla rana e Calcabrina al nibbio. Le interpretazioni date al passo, comunque, sono molteplici: di varia natura sono le relazioni istituite fra i personaggi danteschi ed i protagonisti della favola (cfr. R. Hollander, “Virgil and Dante as Mind-Readers”: Medioevo romanzo, 1984, pp. 92-93). Ma cfr. n. 10-12.
E come l’un pensier de l’altro scoppia, così nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi fé doppia.
Io pensava così: ‘Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.
Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa, ei ne verranno dietro più crudeli che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’.
Già mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento, quand’ io dissi: «Maestro, se non celi
te e me tostamente, i’ ho pavento d’i Malebranche. Noi li avem già dietro; io li ’magino sì, che già li sento».
E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro, l’imagine di fuor tua non trarrei più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.
Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei, con simile atto e con simile faccia, sì che d’intrambi un sol consiglio fei.
S’elli è che sì la destra costa giaccia, che noi possiam ne l’altra bolgia scendere, noi fuggirem l’imaginata caccia».
Già non compié di tal consiglio rendere, ch’io li vidi venir con l’ali tese non molto lungi, per volerne prendere.
Lo duca mio di sùbito mi prese, come la madre ch’al romore è desta e vede presso a sé le fiamme accese,
che prende il figlio e fugge e non s’arresta, avendo più di lui che di sé cura, tanto che solo una camiscia vesta;
e giù dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.
Non corse mai sì tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, quand’ ella più verso le pale approccia,
come ’l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra ’l suo petto, come suo figlio, non come compagno.
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle sovresso noi; ma non lì era sospetto:
ché l’alta provedenza che lor volle porre ministri de la fossa quinta, poder di partirs’ indi a tutti tolle.
Là giù trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi, fatte de la taglia che in Clugnì per li monaci fassi.
Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia.
Oh in etterno faticoso manto! Noi ci volgemmo ancor pur a man manca con loro insieme, intenti al tristo pianto;
ma per lo peso quella gente stanca venìa sì pian, che noi eravam nuovi di compagnia ad ogne mover d’anca.
Per ch’io al duca mio: «Fa che tu trovi alcun ch’al fatto o al nome si conosca, e li occhi, sì andando, intorno movi».
E un che ’ntese la parola tosca, di retro a noi gridò: «Tenete i piedi, voi che correte sì per l’aura fosca!
Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi». Onde ’l duca si volse e disse: «Aspetta, e poi secondo il suo passo procedi».
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta de l’animo, col viso, d’esser meco; ma tardavali ’l carco e la via stretta.
Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco mi rimiraron sanza far parola; poi si volsero in sé, e dicean seco:
«Costui par vivo a l’atto de la gola; e s’e’ son morti, per qual privilegio vanno scoperti de la grave stola?».
Poi disser me: «O Tosco, ch’al collegio de l’ipocriti tristi se’ venuto, dir chi tu se’ non avere in dispregio».
E io a loro: «I’ fui nato e cresciuto sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa, e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla quant’ i’ veggio dolor giù per le guance? e che pena è in voi che sì sfavilla?».
E l’un rispuose a me: «Le cappe rance son di piombo sì grosse, che li pesi fan così cigolar le lor bilance.
Frati godenti fummo, e bolognesi; io Catalano e questi Loderingo nomati, e da tua terra insieme presi
come suole esser tolto un uom solingo, per conservar sua pace; e fummo tali, ch’ancor si pare intorno dal Gardingo».
Io cominciai: «O frati, i vostri mali . . . »; ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse un, crucifisso in terra con tre pali.
Quando mi vide, tutto si distorse, soffiando ne la barba con sospiri; e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,
mi disse: «Quel confitto che tu miri, consigliò i Farisei che convenia porre un uom per lo popolo a’ martìri.
Attraversato è, nudo, ne la via, come tu vedi, ed è mestier ch’el senta qualunque passa, come pesa, pria.
E a tal modo il socero si stenta in questa fossa, e li altri dal concilio che fu per li Giudei mala sementa».
Allor vid’ io maravigliar Virgilio sovra colui ch’era disteso in croce tanto vilmente ne l’etterno essilio.
Poscia drizzò al frate cotal voce: «Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci s’a la man destra giace alcuna foce
onde noi amendue possiamo uscirci, sanza costrigner de li angeli neri che vegnan d’esto fondo a dipartirci».
Per capire questa terzina io interpreto "senza costrigner de li angeli neri che vegnan..." come "senza che succeda che de li angeli neri vegnan...". Perché
il significato comune (perlomeno moderno) di "costrignere" vorrebbe dire che gli angeli neri sarebbero obbligati ad andare a prendere Dante e Virgilio, ma obbligati da chi? Certo non da loro,
che stanno scappando
da loro.
Invece io penso che Virgilio voglia dire "onde noi possiamo uscire da qui senza che qualche angelo nero ci venga a prendere", e probabilmente non pensa ai Melebranche, che non possono neanche uscire dalla
quinta bolgia, ma a qualche altro demone che forse sta nella sesta bolgia.
Rispuose adunque: «Più che tu non speri s’appressa un sasso che da la gran cerchia si move e varca tutt’ i vallon feri,
salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia; montar potrete su per la ruina, che giace in costa e nel fondo soperchia».
Questo conferma secondo me che in genere non è possibile uscire da una bolgia, perchè gli argini non si possono scalare. Virgilio si è buttato dentro la sesta bolgia come mossa disperata per sfuggire all'inseguimento dei Malebranche, a differenza di come aveva fatto nella terza bolgia, quando aveva scelto con attenzione un punto dove si poteva scendere e poi risalire. Invece qui
ora si trova nei guai perché non sa come uscire. È da notare che non si trova nei guai a causa della bugia di Malacoda, perchè il fatto che il sesto
ponte sia rotto è irrelevante una volta che si sono buttati dentro la bolgia (anche se il ponte fosse stato intero, come facevano ad arrivarci dal fondo della bolgia?). E la bugia di Malacoda
viene rivelata sì, ma è come una nota parentetica che riceve Virgilio dalla risposta di frate Catalano. L'informazione utile essenziale è che le rovine del ponte crollato possono essere scalate per poter uscire dalla bolgia.
Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: «Mal contava la bisogna colui che i peccator di qua uncina».
E ’l frate: «Io udi’ già dire a Bologna del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’ ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna».
Appresso il duca a gran passi sen gì, turbato un poco d’ira nel sembiante; ond’ io da li ’ncarcati mi parti’
dietro a le poste de le care piante.
Geografia dell'ottavio cerchio
Per capire bene il percorso di Dante e Virgilio, e l'inganno di Malacoda, è stato necessario per me prima di tutto capire bene la geografia dell'ottavo cerchio.
Nel canto XVIII, Gerione deposita i due viaggiatori nel fondo del "burrato" che sprofonda in giù dal settimo cerchio. Come descritto all'inizio di quel canto, si tratta di un luogo circolare
circondato tutto intorno da un alto muro roccioso, e composto poi di dieci "valli" (i gironi) circolari concentriche, che si rimpiccioliscono in diametro fino ad arrivare a un profondo pozzo al
centro. Queste valli sono separate da argini rocciosi, e nonostante non sia esplicitamente detto da Dante, io penso che bisogna interpretare questi argini come così ripidi in genere da non permettere
di poter passare direttamente da una valle all'altra, scalando un argine da una parte e poi discendendo nella valle dopo. Invece, per attraversare le valli c'è un sistema di ponti che va dalla valle più
esterna al pozzo centrale, come riassunto in: ...da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ’ fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.
(XVIII 16-18)
Io penso che il fondo delle valli sia sotto il livello dove Gerione ha depositato Dante e Virglio, i quali cominciano a costeggiare l'orlo del primo girone, camminando in senso orario, in modo da avere la vista della valle di sotto sulla destra: ...e ’l poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.
A la man destra vidi nova pieta, (XVIII 20-22)
Quindi i dannati incontrati in questo girone devono essere stati in basso e Dante gli parlava dall'orlo del girone. Poi incontrano il primo ponte, che fa un arco che porta dall'orlo esterno del primo
all'argine che separa il primo dal secondo girone. Quando arrivano alla fine del ponte ...là ’ve lo stretto calle
con l’argine secondo s’incrocicchia,
e fa di quello ad un altr’ arco spalle.(XVIII 100-102)
osservano i dannati del secondo girone (per esempio Taide) solo dall'alto, senza scendere. Ma dopo aver passato il ponte che va dal secondo al terzo girone, Dante chiede di scendere a vedere
i simoniaci e allora discendono il lato dell'argine quarto (contando quindi come primo quello che non era proprio un argine ma il muro esterno del primo girone): Allor venimmo in su l’argine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto. (XIX 40-42)
Riescono a scendere perché Virglio trova un punto meno ripido per scendere. Penso ci sia da intendere, appunto, che in genere non sia possibile scendere in quel modo perchè gli argini
sono troppo ripidi. Poi alla fine della predica che Dante fa a Niccolò III, Virgilio lo porta di peso di nuovo sopra per lo stesso cammino e tornano sull'argine che separa le terza dalla quarta bolgia.
Poi passano sul ponte che sovrasta la quarta bolgia (quella degli indovini) senza mai scendere giù. Continuano poi sul quinto ponte, che sovrasta la quinta bolgia (quindi che va dal quinto al sesto argine) senza fermarsi per niente sul quinto argine
(e infatti Dante dice all'inizio del Canto XXI: Così di ponte in ponte, altro parlando
e alla fine di quel ponte incontrano i Malebranche. Poi Malacoda dice che il sesto ponte (che sovrasta la sesta bolgia) è crollato: Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l’arco sesto. (XXI 106-108),
e poi dice la bugia che poco più in là c'è un altro ponte che invece attraversa la bolgia intatto: presso è un altro scoglio che via face. (XXI 111)
Poi Dante, Virglio e i 10 Malebranche si mettono a camminare "sull'argine sinistro", che non mi sembra molto chiaro come riferimento: Per l’argine sinistro volta dienno; (XXI 136)
(sinistro rispetto a che?). Ma deve dire che camminavano in senso orario sull'argine che separa la quinta dalla sesta bolgia. Poi c'è l'episodio di Ciampolo e i due diavoli che cadono nella pece
dentro la quinta bolgia (quindi a sinistra della loro direzione di marcia) e
Dante e Virgilio che scappano, continuando a camminare sullo stesso argine, fino a quando, nel prossimo canto, vedendo che i Malebranche li stanno inseguendo, Virglio si butta
giù a "scivolo" sulla destra, lungo la parete dell'argine che finisce dentro la sesta bolgia. Io interpreto le parole di Virgilio: S’elli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere, (XXIII, 31-32)
come voler dire che lui spera che la parete dell'argine sulla destra non sia troppo ripida, in modo che loro possano scendere a "scivolo" come poi hanno fatto.
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