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Furio legge Dante
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Questo è il primo canto in cui Dante è del tutto invisibile. Non parla, e non c'è nessuno riferimento a lui (ma vedi la nota al verso 3). Dopo aver imparato la sua identità, Sordello prima fa onore a Virgilio ed esprime la sua ammirazione, poi gli chiede se viene dall'Inferno, e Virgilio gli spiega la sua condizione al Limbo. Poi Sordello si offre di fare da guida. Ma dice subito che non è possibile continuare a salire dope che il sole sia tramontato, e suggerisce di trovare un posto adatto per passare la notte. Quindi conduce Dante e Virgilio lungo un sentiero che arriva in una valle piena di meravigliosi colori e di un indicibile profumo. Qui sono adunati svariati re, principi e imperatori, e Sordello li descrive uno per uno. La scena è riminiscente di quella al Canto IV dell'Inferno, quando Virgilio mostra a Dante gli "spiriti magni" che stanno nel Limbo. Dante coglie anche l'occasione per discutere se (e quanto) il valore degli uomini si passa in eredità da padre e figlio (121 - 123).
Poscia che l’accoglienze oneste e liete
furo iterate tre e quattro volte,
Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?».
Altro esempio dell'uso del "voi" invece del "tu". Vedi la nota a Inferno, X, 51.
Si potrebbe argomentare che forse qui Sordello intendeva "voi" come plurale, intendendo quindi sia Virgilio che Dante.
Questo potrebbe essere confermato dal fatto che più tardi, dopo aver saputo chi è, si rivolge a Virgilio
con il "tu". Ma secondo me non è così, e qui Sordello si indirizza solo a Virgilio e gli dà del "voi". Perché la risposta di Virgilio non fa nessuno accenno a Dante.
Sembrerebbe strano che l'unico riferimento alla presenza di Dante in tutto il canto sia in questo "voi" nella prima terzina e poi silenzio assoluto. Invece io penso che il susseguente uso del "tu" è dovuto al fatto che ha saputo che si tratta di Virgilio, e come osservato prima, il "tu" viene usato con persone a cui si deve massimo rispetto (o nessun rispetto...) .
«Anzi che a questo monte fosser volte
l’anime degne di salire a Dio,
fur l’ossa mie per Ottavian sepolte.
Io son Virgilio; e per null’ altro rio
lo ciel perdei che per non aver fé».
Per non avere fede? Penso che vada interpretato "per non avere avuto l'oppurtunità di conoscere la vera fede". Perché sennò i miscredenti stanno
al cerchio VI dell'Inferno. Rimane secondo me non del tutto chiara la logica della dottrina cristiana per cui lui e i "pargoli innocenti" (v. 31) stanno al limbo, e sembra quasi che Dante se ne renda conto e ogni volta che si discute l'argomento dice una cosa un po' diversa.
Così rispuose allora il duca mio.
Qual è colui che cosa innanzi sé
sùbita vede ond’ e’ si maraviglia,
che crede e non, dicendo «Ella è... non è...»,
tal parve quelli; e poi chinò le ciglia,
e umilmente ritornò ver’ lui,
e abbracciòl là ’ve ’l minor s’appiglia.
«O gloria di Latin», disse, «per cui
mostrò ciò che potea la lingua nostra,
o pregio etterno del loco ond’ io fui,
qual merito o qual grazia mi ti mostra?
S’io son d’udir le tue parole degno,
dimmi se vien d’inferno, e di qual chiostra».
«Per tutt’ i cerchi del dolente regno»,
rispuose lui, «son io di qua venuto;
virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno.
Non per far, ma per non fare ho perduto
a veder l’alto Sol che tu disiri
e che fu tardi per me conosciuto.
Per ritornate al tema del verso 8, mi pare che questa sia la logica giusta: per tutti quelli nati prima di lui, Gesù Cristo è semplicemente arrivato troppo tardi, tutto qua. Vedi anche i
versi 32-33 che si accordano bene. Quindi "aver fede", come espresso al verso 8, non ha il significato che gli diamo oggi. Vuol dire letteralmente non avere la fede vera a cui poter
credere. Il libero arbitrio o la volontà umana non hanno nessun ruolo.
Luogo è là giù non tristo di martìri,
ma di tenebre solo, ove i lamenti
non suonan come guai, ma son sospiri.
Quivi sto io coi pargoli innocenti
dai denti morsi de la morte avante
che fosser da l’umana colpa essenti;
quivi sto io con quei che le tre sante
virtù non si vestiro, e sanza vizio
conobber l’altre e seguir tutte quante.
Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio
dà noi per che venir possiam più tosto
là dove purgatorio ha dritto inizio».
Rispuose: «Loco certo non c’è posto;
licito m’è andar suso e intorno;
per quanto ir posso, a guida mi t’accosto.
Ma vedi già come dichina il giorno,
e andar sù di notte non si puote;
però è buon pensar di bel soggiorno.
Anime sono a destra qua remote;
se mi consenti, io ti merrò ad esse,
e non sanza diletto ti fier note».
«Com’ è ciò?», fu risposto. «Chi volesse
salir di notte, fora elli impedito
d’altrui, o non sarria ché non potesse?».
E ’l buon Sordello in terra fregò ’l dito,
dicendo: «Vedi? sola questa riga
non varcheresti dopo ’l sol partito:
non però ch’altra cosa desse briga,
che la notturna tenebra, ad ir suso;
quella col nonpoder la voglia intriga.
Ben si poria con lei tornare in giuso
e passeggiar la costa intorno errando,
mentre che l’orizzonte il dì tien chiuso».
Allora il mio segnor, quasi ammirando,
«Menane», disse, «dunque là ’ve dici
ch’aver si può diletto dimorando».
Poco allungati c’eravam di lici,
quand’ io m’accorsi che ’l monte era scemo,
a guisa che i vallon li sceman quici.
«Colà», disse quell’ ombra, «n’anderemo
dove la costa face di sé grembo;
e là il novo giorno attenderemo».
Tra erto e piano era un sentiero schembo,
che ne condusse in fianco de la lacca,
là dove più ch’a mezzo muore il lembo.
Oro e argento fine, cocco e biacca,
indaco, legno lucido e sereno,
fresco smeraldo in l’ora che si fiacca,
da l’erba e da li fior, dentr’ a quel seno
posti, ciascun saria di color vinto,
come dal suo maggiore è vinto il meno.
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi facea uno incognito e indistinto.
‘Salve, Regina’ in sul verde e ’n su’ fiori
quindi seder cantando anime vidi,
che per la valle non parean di fuori.
«Prima che ’l poco sole omai s’annidi»,
cominciò ’l Mantoan che ci avea vòlti,
«tra color non vogliate ch’io vi guidi.
Di questo balzo meglio li atti e ’ volti
conoscerete voi di tutti quanti,
che ne la lama giù tra essi accolti.
Colui che più siede alto e fa sembianti
d’aver negletto ciò che far dovea,
e che non move bocca a li altrui canti,
Rodolfo imperador fu, che potea
sanar le piaghe c’hanno Italia morta,
sì che tardi per altri si ricrea.
Questo verso ha generato un gran volume di commenti. Non è chiarissimo che intende con "tardi". Il significato più ovvio sarebbe "troppo tardi"
e siccome tutti sono d'accordo che il riferimento è al tentativo fallito di Arrigo VII di portare l'Italia sotto il controllo imperiale, questo Dante non poteva saperlo perché
pare certo che scriveva perlomeno un paio di anni prima. Quindi uno dovrebbe interpretarlo non come "troppo tardi" ma "più tardi". Però certo che a prima lettura si capisce
"troppo tardi".
Una interpretazione interessante che mi sembra plausibile è che si tratta di un ritocco posteriore: dopo che la Divina Commedia era già stata scritta, successe la spedizione di Arrigo VII e allora Dante ritoccò questo verso che assume un significato "profetico" (perché il tentativo di Arrigo VII fallì, arrivando "troppo tardi", quando le divisioni politiche e
le lotte intestine nelle città italiane erano oramai irrecuperabili), e che probabilmente prima diceva qualcosa un po' diverso.
L’altro che ne la vista lui conforta,
resse la terra dove l’acqua nasce
che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta:
Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce
fu meglio assai che Vincislao suo figlio
barbuto, cui lussuria e ozio pasce.
E quel nasetto che stretto a consiglio
par con colui c’ha sì benigno aspetto,
morì fuggendo e disfiorando il giglio:
guardate là come si batte il petto!
L’altro vedete c’ha fatto a la guancia
de la sua palma, sospirando, letto.
Padre e suocero son del mal di Francia:
sanno la vita sua viziata e lorda,
e quindi viene il duol che sì li lancia.
Quel che par sì membruto e che s’accorda,
cantando, con colui dal maschio naso,
d’ogne valor portò cinta la corda;
e se re dopo lui fosse rimaso
lo giovanetto che retro a lui siede,
ben andava il valor di vaso in vaso,
che non si puote dir de l’altre rede;
Iacomo e Federigo hanno i reami;
del retaggio miglior nessun possiede.
Rade volte risurge per li rami
l’umana probitate; e questo vole
quei che la dà, perché da lui si chiami.
Qui Dante dice che raramente il valore del padre viene ereditato dal figlio, e dicendo che solo l'imperscrutabile giudizio di Dio può dotare una persona dell' "umana probitate", in pratica afferma che tali qualità sono imprevedibili e regolate solo dal caso. Questo richiama altri suoi scritti: "Ché 'l divino seme non cade in ischiatta cioè in istirpe, ma cade ne le singulari persone, e ... la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe” (Conv. IV.xx.5)
Anche al nasuto vanno mie parole
non men ch’a l’altro, Pier, che con lui canta,
onde Puglia e Proenza già si dole.
Tant’ è del seme suo minor la pianta,
quanto, più che Beatrice e Margherita,
Costanza di marito ancor si vanta.
Per capire questa terzina bisogna sapere che Beatrice e Margherita erano mogli di Carlo I , e Costanza era la vedova di Pietro III d'Aragona. Dante
dice che Carlo II (la pianta) è stato tanto peggiore di Carlo I (il seme) quanto Carlo I sia stato peggiore di Pietro III d'Aragona. Però per il secondo paragone usa le mogli (cioè quanto si poteva vantare la
moglie del proprio marito). Questo paragone ricorda quello
sulle dimensioni di Lucifero a Inferno, XXXIV, 32. Qui pure si potrebbe riassumere con l'uguaglianza di due rapporti: se \(C1\), \(C2\), \(P\) sono quantità numeriche
che misurano in qualche modo il "valore" di Carlo I, Carlo II e Pietro III (rispettivamente), l'affermazione di Dante
è che \(C2/C1 =C1/P\). Questo è equivalente a \(C2/P =(C1/P)^2\). Quindi
se il rapporto \(C1/P\) è inferiore a 1 (Carlo I valeva poco rispetto a Pietro III), allora il rapporto \(C2/P\) si ottiene facendo il quadrato di un numero inferiore a 1, quindi diventa ancora più piccolo.
Vedete il re de la semplice vita
seder là solo, Arrigo d’Inghilterra:
questi ha ne’ rami suoi migliore uscita.
Quel che più basso tra costor s’atterra,
guardando in suso, è Guiglielmo marchese,
per cui e Alessandria e la sua guerra
fa pianger Monferrato e Canavese».
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