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Furio legge Dante
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In questo canto, Dante e Virgilio rimangono nella seconda cornice con gli invidiosi. Conversano con due spiriti: Guido del Duca (un nobile di Ravenna) e
Rinieri dei Paolucci da Calboli (da Forlì). Ma è Guido del Duca che parla quasi sempre, e che senz'altro può considerarsi il
principale protagonista del canto. Dante usa questo personaggio per lanciare un'altra dura invettiva, in due parti.
La prima parte è composta di 13 terzine in cui la valle del fiume Arno è chiamata la "maladetta e sventurata fossa" (51). Partendo dalla sorgente del fiume fino alla
sua foce, descrive gli abitanti delle principali città incontrate, usando paragoni animaleschi: porci (il Casentino), cani (Arezzo), lupi (Firenze) e volpi (Pisa). Poi
fa la profezia (rivelata a lui da un non meglio specificato "vero spirto" (57)) che il nipote di Rinieri sgominerà i "lupi" di Firenze, uccidendone molti e trasformando
la città in un "trista selva" (64) che non potrà risanarsi neanche in mille anni.
Questo prima che Dante e Virgilio sappiano l'identità dello spirito. Poi, dopo averla imparata, segue una seconda invettiva di Guido del Duca, che si prolunga per 17 terzine, in cui lo spirito parla invece della Romagna. Fa un lungo elenco di nobili e valorosi personaggi del passato,
lamentando la decadenza dei loro attuali discendenti, e
concludendo con l'affermazione che fanno bene certe famiglie a non produrre più eredi, e fanno invece male altre a continuare a produrre "tai conti" (117).
Quando Guido del Duca bruscamente interrompe la conversazione, dicendo "Ma va via, Tosco, omai;" (124), Dante e Virgilio procedono nel loro
cammino allontanandosi dagli spiriti,
e poco dopo sentono due voci, paragonate a fulmini seguiti da tuoni, rappresentanti esempi di invidia punita (Caino, che invidiò il fratello Abele, e
Aglauro, figlia del re di Atene Cecrope,
invidiosa della sorella Erse). Il canto si conclude con le parole di Virgilio, che parla qui per la prima volta in questo canto, e che riassume in modo breve ed efficace
come vede la condizione umana: il cielo vi chiama e vi mostra le sue bellezze eterne, ma invece voi guardate solo in terra, e quindi Dio vi punisce (148-151).
«Chi è costui che ’l nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?».
«Non so chi sia, ma so ch’e’ non è solo;
domandal tu che più li t’avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco’lo».
Così due spirti, l’uno a l’altro chini,
ragionavan di me ivi a man dritta;
poi fer li visi, per dirmi, supini;
e disse l’uno: «O anima che fitta
nel corpo ancora inver’ lo ciel ten vai,
per carità ne consola e ne ditta
onde vieni e chi se’; ché tu ne fai
tanto maravigliar de la tua grazia,
quanto vuol cosa che non fu più mai».
E io: «Per mezza Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona,
e cento miglia di corso nol sazia.
Di sovr’ esso rech’ io questa persona:
dirvi ch’i’ sia, saria parlare indarno,
ché ’l nome mio ancor molto non suona».
Questo verso senz'altro rivela che Dante era ben sicuro della propria
futura grandezza. Nonostante nel canto precedente is dichiari impaurito della punizione
riservata ai superbi, sembra non possa fare a meno fare queste affermazioni che certo non
sono un indizio di umiltà. E deve essere intenzionale, perché sarebbe bastato sostituire
la parola "ancor" con un'altra (che sicuramente avrebbe facilmente trovato) per dare
un significato umile al verso.
«Se ben lo ’ntendimento tuo accarno
con lo ’ntelletto», allora mi rispuose
quei che diceva pria, «tu parli d’Arno».
E l’altro disse lui: «Perché nascose
questi il vocabol di quella riviera,
pur com’ om fa de l’orribili cose?».
E l’ombra che di ciò domandata era,
si sdebitò così: «Non so; ma degno
ben è che ’l nome di tal valle pèra;
ché dal principio suo, ov’ è sì pregno
l’alpestro monte ond’ è tronco Peloro,
che ’n pochi luoghi passa oltra quel segno,
infin là ’ve si rende per ristoro
di quel che ’l ciel de la marina asciuga,
ond’ hanno i fiumi ciò che va con loro,
vertù così per nimica si fuga
da tutti come biscia, o per sventura
del luogo, o per mal uso che li fruga:
ond’ hanno sì mutata lor natura
li abitator de la misera valle,
che par che Circe li avesse in pastura.
Tra brutti porci, più degni di galle
che d’altro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.
Botoli trova poi, venendo giuso,
ringhiosi più che non chiede lor possa,
e da lor disdegnosa torce il muso.
Vassi caggendo; e quant’ ella più ’ngrossa,
tanto più trova di can farsi lupi
la maladetta e sventurata fossa.
Discesa poi per più pelaghi cupi,
trova le volpi sì piene di froda,
che non temono ingegno che le occùpi.
Né lascerò di dir perch’ altri m’oda;
e buon sarà costui, s’ancor s’ammenta
di ciò che vero spirto mi disnoda.
Io veggio tuo nepote che diventa
Il nipote di Rinieri, Fulcieri, fù podestà di Firenze nel primo semestre del 1303.
cacciator di quei lupi in su la riva
del fiero fiume, e tutti li sgomenta.
Vende la carne loro essendo viva;
poscia li ancide come antica belva;
Fulcieri "realizzò i più arditi
desideri dei Neri, con l'inferire contro i Bianchi. Torturò e uccise molti
fiorentini come belva esperta (" antica ") guadagnandosi una
orribile reputazione di sanguinario e lasciò la città in una
condizione tale, che neppure in mille anni sarebbe tornata allo
stato primitivo".(Lucio Sbriccioli)
Va notato che altri commentatori pensano invece che "belva antica" si riferisca a quelli uccisi dal nipote di Rinieri,
nel "senso di 'una vecchia bestia da macello', la cui carne è stata posta in vendita ancor prima della macellazione." (Nicola Fosca).
molti di vita e sé di pregio priva.
Sanguinoso esce de la trista selva;
lasciala tal, che di qui a mille anni
ne lo stato primaio non si rinselva».
Com’ a l’annunzio di dogliosi danni
si turba il viso di colui ch’ascolta,
da qual che parte il periglio l’assanni,
così vid’ io l’altr’ anima, che volta
stava a udir, turbarsi e farsi trista,
poi ch’ebbe la parola a sé raccolta.
Lo dir de l’una e de l’altra la vista
mi fer voglioso di saper lor nomi,
e dimanda ne fei con prieghi mista;
per che lo spirto che di pria parlòmi
ricominciò: «Tu vuo’ ch’io mi deduca
nel fare a te ciò che tu far non vuo’mi.
Ma da che Dio in te vuol che traluca
tanto sua grazia, non ti sarò scarso;
però sappi ch’io fui Guido del Duca.
Guido del Duca fu "della nobile famiglia ravennate degli
Onesti, vissuto nella prima meta del sec. XIII. Di lui sappiamo soltanto
che esercitò in Romagna la professione di giudice, e che era ancor vivo nel 1249.
Fu uomo di parte ghibellina." (Lucio Sbriccioli)
Fu il sangue mio d’invidia sì rïarso,
che se veduto avesse uom farsi lieto,
visto m’avresti di livore sparso.
Di mia semente cotal paglia mieto;
o gente umana, perché poni ’l core
là ’v’ è mestier di consorte divieto?
Questi è Rinier; questi è ’l pregio e l’onore
"Rinieri dei Paolucci da Calboli, forlivese e uomo di
parte guelfa. Prese parte attiva alle lotte interne delle Romagne,
ricoprendo ripetutamente la carica di podestà in varie città
emiliano-romagnole. Morì nel 1296, quando le milizie forlivesi,
guidate da Scarpetta Ordelaffi, espugnarono il castello di Calboli."
(Lucio Sbriccioli)
de la casa da Calboli, ove nullo
fatto s’è reda poi del suo valore.
E non pur lo suo sangue è fatto brullo,
tra ’l Po e ’l monte e la marina e ’l Reno,
del ben richesto al vero e al trastullo;
ché dentro a questi termini è ripieno
di venenosi sterpi, sì che tardi
per coltivare omai verrebber meno.
Ov’ è ’l buon Lizio e Arrigo Mainardi?
Pier Traversaro e Guido di Carpigna?
Lizio fu signore di Valbona, sui monti tra la Toscana e la
Romagna, e citato come primo esempio di una lista di uomini virtuosi.
Arrigo Mainardi: "dei signori di Bertinoro."
"Pier Traversaro signore
di Ravenna dal 1218 al 1225, Guido dei conti di Carpigna o
Carpegna, nel Montefeltro."
(Lucio Sbriccioli)
Oh Romagnuoli tornati in bastardi!
Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?
quando in Faenza un Bernardin di Fosco,
Fabbro: della famiglia dei Lambertazzi di Bologna, capo dei
ghibellini di Romagna.
Bernardin di Fosco: difese Faenza, nel 1240, contro Federico
II. (Lucio Sbriccioli)
verga gentil di picciola gramigna?
Non ti maravigliar s’io piango, Tosco,
quando rimembro, con Guido da Prata,
Ugolin d’Azzo che vivette nosco,
Guido da Prata: gentiluomo di Prata, tra Faenza e Ravenna,
vissuto a cavallo dei sec. XII e XIII.
Ugolin d'Azzo: è forse il rappresentante di Faenza alla
negoziazione della Pace di Costanza nel 1183.
(Lucio Sbriccioli)
Federigo Tignoso e sua brigata,
la casa Traversara e li Anastagi
Federigo Tignoso: forse di Rimini, usava accogliere in casa
sua quanti gli somigliassero moralmente.
La casa Traversara: grande famiglia ravennate, come quella
degli Anastagi.
(Lucio Sbriccioli)
(e l’una gente e l’altra è diretata),
le donne e ’ cavalier, li affanni e li agi
Verso ripreso da Ludovico Ariosto per il primo verso dell'Orlando Furioso
che ne ’nvogliava amore e cortesia
là dove i cuor son fatti sì malvagi.
O Bretinoro, ché non fuggi via,
Bertinoro, città tra Forlì e Cesena,
contò famiglie rinomate per la cortesia e la liberalità; sulla piazza
sorgeva (e sorge tuttora) una colonna munita di anelli, ciascuno
appartenente ad una famiglia. Il forestiero che avesse legato il
proprio cavallo ad uno degli anelli, diveniva automaticamente
ospite della famiglia cui l'anello apparteneva.
(Lucio Sbriccioli)
poi che gita se n’è la tua famiglia
e molta gente per non esser ria?
Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
Bagnacaval: Bagnacavallo, tra Lugo e Ravenna, era feudo
dei conti Malvicini, la cui discendenza in linea maschile era spenta
nel 1300.
Castrocaro: nella valle del Montone; Conio, o Cunio, era un
castello presso Imola.
(Lucio Sbriccioli)
che di figliar tai conti più s’impiglia.
Ben faranno i Pagan, da che ’l demonio
I Pagani di Faenza, con capostipite ("demonio lor") Maghinardo da Susinana (incontrato già in Inferno XXVII, 49
),
che morì nel 1302.
lor sen girà; ma non però che puro
già mai rimagna d’essi testimonio.
O Ugolin de’ Fantolin, sicuro
Ugolino dei Fantolini da Cerfugnano,
presso Faenza; la sua discendenza si era spenta prima del 1300,
perciò il suo nome è " sicuro " di non venir macchiato. (Lucio Sbriccioli)
è ’l nome tuo, da che più non s’aspetta
chi far lo possa, tralignando, scuro.
Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta
troppo di pianger più che di parlare,
sì m’ha nostra ragion la mente stretta».
Noi sapavam che quell’ anime care
ci sentivano andar; però, tacendo,
facëan noi del cammin confidare.
Poi fummo fatti soli procedendo,
folgore parve quando l’aere fende,
voce che giunse di contra dicendo:
‘Anciderammi qualunque m’apprende’;
e fuggì come tuon che si dilegua,
se sùbito la nuvola scoscende.
Come da lei l’udir nostro ebbe triegua,
ed ecco l’altra con sì gran fracasso,
che somigliò tonar che tosto segua:
«Io sono Aglauro che divenni sasso»;
e allor, per ristrignermi al poeta,
in destro feci, e non innanzi, il passo.
Già era l’aura d’ogne parte queta;
ed el mi disse: «Quel fu ’l duro camo
che dovria l’uom tener dentro a sua meta.
Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
de l’antico avversaro a sé vi tira;
e però poco val freno o richiamo.
Chiamavi ’l cielo e ’ntorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze etterne,
e l’occhio vostro pur a terra mira;
onde vi batte chi tutto discerne».
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