La Divina Commedia



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Dante per tutte le occasioni

Inferno

Canto II

Vittorio Gassman legge Dante

È il crepuscolo, e Dante viene assalito da dubbi e paure. Pensa che tutti gli animali stanno per andare a riposarsi e invece lui si appresta a sostenere un ben arduo e spaventoso cammino. Dopo la classica invocazione alle muse dei poemi epici, con l'innovazione che ci aggiunge anche un'invocazione al proprio ingegno, si rivolge quindi a Virgilio e gli chiede se ha ben considerato chi sia lui, e se veramente possa essere in grado di fare tale viaggio. Gli dice di sapere che ci sono già passati due grandi del passato: Enea e San Paolo. Ma, ragiona Dante, Enea era destinato a diventare il capostipite di Roma e del suo impero, e Roma in seguito è diventata la siede del successore di San Pietro. San Paolo, era San Paolo. Ma invece lui chi è? Dice Dante, io non sono né Enea né San Paolo. E diventa così preoccupato e timoroso che vuole abbandonare l'impresa. Allora Virgilio lo rimprovera di non avere abbastanza coraggio e gli racconta come e perché è venuto a incontrarlo al piede del colle ostacolato dalla lupa. Gli dice di essere stato chiamato da Beatrice, scesa nel Limbo dove si trovava lui, la quale gli ha chiesto di andare a salvare Dante dal grande impedimento in cui si trovava. Beatrice fa il suo appello in modo accorato e dicendo che lei ne sarà consolata. Virgilio risponde di essere ben pronto a ubbidire alla richiesta, e chiede a Beatrice come mai non ha paura di scendere in quel modo dal paradiso in cui si trova. Beatrice risponde che lei è fatta da Dio in modo tale che niente di ciò che esiste lì potrebbe farle male. Poi racconta ulteriori dettagli, dicendo che la Madonna si è impietosita per Dante ed è interceduta con Dio, che aveva già fatto un "duro giudicio" nei confronti di Dante. La Madonna chiese a Santa Lucia di intervenire per proteggere il suo fedele, e Santa Lucia andò a cercare Beatrice chiedendole di andare a salvare Dante. Appena sentite le parole di Santa Lucia, Beatrice corse giù a cercare Virgilio, rivolgendosi a lui come persona fidata ed onesta. Alla fine della suo racconto Virgilio di nuovo rimprovera Dante, dicendogli che non dovrebbe aver paura considerato che tre donne benedette di tale calibro (la Madonna, Santa Lucia e Beatrice) si curano di lui nella corte del cielo, e poi lui stesso gli promette che tutto andrà bene. Dante è del tutto rincuorato dalle spiegazioni di Virgilio e gli dice, nuovamente entusiasta, di continuare ad andare, e lo segue dentro il cammino "alto e silvestro".

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno

m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.

O muse, o alto ingegno, or m’aiutate; Questa è l'invocazione alle muse secondo l'uso dei poemi epici classici, che indica l'inizio vero e proprio del poema, cosicché il Canto I deve considerarsi una introduzione. L'innovazione di Dante qui è che invoca anche il proprio ingegno.
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.

Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’ è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.

Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.

Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale

non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:

la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.

Per quest’ andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.

Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione.

Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede. Questa terzina contrappone se stesso ad un elenco di personaggi storici e mitologici famosi descritti nelle sette terzine precedenti, ed è da notare l'uso di "io" ripetuto ben quattro volte in tre versi, come proprio per sottolineare il contrasto fra se stesso e i grandi del passato. Si potrebbe argomentare che ciò dimostra un senso di umiltà da parte di Dante, che non osa neanche paragonarsi a tali personaggi. Ma questa modestia sul proprio valore senz'altro non si estende al giudizio della sua poesia, come già si è visto in Canto I (87) e poi si vedrà più esplicitamente nel Canto IV (100-102).

Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono». Il dubbio e la paura di Dante rispetto alla giustificazione del viaggio infernale rappresentano dal punto di vista teoretico l'antinomia fondamentale del Cristianesimo, ovvero la contraddizione tra storia ed eternità, tra libertà e necessità, che culmina con l'incarnazione di Cristo, l'eterno che entra nella storia. La libertà dell'uomo è tale che gli permette di andare contro la necessità, ma questo libero arbitrio è nulla (Ulisse fa naufragio) senza il fondamento e la giustificazione della necessità di Dio. (Paolo Dai Prà)

E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,

tal mi fec’ ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.

«S’i’ ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell’ ombra,
«l’anima tua è da viltade offesa;

la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand’ ombra. Questo verso è un virtuosismo di squisitissima poesia. Per spiegare bene in prosa bisogna scrivere ben più di sei parole: La paura fa rinunciare agli uomini l'intraprendere nobili e difficili imprese, e li fa retrocedere come fa un animale che non vede bene a causa del sopraggiungere dell'oscurità della notte e quindi esita a proseguire e si volge per tornare indietro. Il testo in corsivo è magistralmente riassunto da Dante con le sei parole "come falso veder bestia quand’ ombra."

Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’ io venni e quel ch’io ’ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.

Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.

Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:

“O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana,

l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’ è per paura;

e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.

Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.

I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.

Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui”.
Tacette allora, e poi comincia’ io:

“O donna di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,

tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.

Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi”.

“Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente”, mi rispuose,
“perch’ i’ non temo di venir qua entro.

Temer si dee di sole quelle cose
c’hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, ché non son paurose.

I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange, Il linguaggio di Dante deve avere influenzato così tanto lo sviluppo della lingua italiana che forse l'espressione "...non mi tange" usata per esempio in dialetto romanesco deriva da qui, e questo probabilmente dà al lettore moderno (perlomeno romano...) un'impressione sbagliata su quello che voleva dire Beatrice (cioè questa espressione ha acquisito un significato di indifferenza che probabilmente non esisteva nell'intenzione di Dante.)
né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.

Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ’mpedimento ov’ io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.

Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse:—Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando—.

Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’ i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele. Io trovo che questa terzina rivela una concezione così ingenua e banale dell'aldilà che non posso fare a meno di trovare divertente: Lucia si muove da una stanza del Paradiso a un'altra per andare a trovare Beatrice che stava seduta conversando con Rachele...

Disse:—Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?

Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto?—.

Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com’ io, dopo cotai parole fatte,

venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch’onora te e quei ch’udito l’hanno”.

Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.

E venni a te così com’ ella volse:
d’inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.

Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai, Questo è un altro esempio di una terzina che conclude una lunga discussione (la spiegazione di Virgilio cominciata al verso 52) ripetendo ad effetto quattro volte una parola chiave: "perché?" (cfr. 31-33 ).

poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette?».

Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,

tal mi fec’ io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch’i’ cominciai come persona franca:

«Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch’ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!

Tu m’hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
ch’i’ son tornato nel primo proposto.

Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro».
Così li dissi; e poi che mosso fue,

intrai per lo cammino alto e silvestro.

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