La Divina Commedia



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Dante per tutte le occasioni

Purgatorio

Canto III

Vittorio Gassman legge Dante

Dopo il rimprovero di Catone Uticense con cui si è chiuso il canto precedente, Dante e Virgilio riprendono il loro cammino verso il monte, ma non sanno bene da che parte andare. Dante si accorge dell'ombra che fa il suo corpo sotto i raggi del sole, mentre invece Virgilio non fa ombra. Da qui scaturisce un discorso di Virgilio sul corpo umano, che partendo dal fatto che il suo corpo è sepolto a Napoli invece che a Brindisi, si allarga presto a considerazioni generali e finisce col renderlo turbato, dopo aver menzionato Aristotele e Platone confinati nel Limbo, senz'altro perché anche lui è uno di quelli. Poi Dante vede arrivare un gruppo di anime, che sono paragonate a una mandria di pecore docili e timide, che lentamente sta andando loro incontro. Quando si accorgono che Dante fa ombra, si fermano e Virgilio chiarisce subito la condizione di Dante, rassicurando le anime che il loro viaggio è sancito dal cielo. Allora le anime indicano loro la strada da seguire, poi una di loro si fa avanti e si presenta: si tratta di Manfredi, nipote di Costanza imperatrice, che fu ucciso con due colpi di spada durante la battaglia di Benevento nel 1268, e il cui corpo fu trasportato fuori i confini del regno perché era stato scomunicato. Manfredi si raccomanda a Dante di fare sapere a sua figlia che lui è in Purgatorio, quindi ha bisogno di preghiere. Spiega che la scomunica non vuol dire la definitiva perdita di speranza nella salvezza dell'anima. Infatti nel caso suo, in punto di morte si rivolse a Dio con pentimento per i suoi "orribili peccati" e fu perdonato. È però vero che chi viene scomunicato deve passare nell'antipurgatorio un periodo di tempo trenta volte quello in cui è vissuto al di fuori della Chiesa come vivo. A meno che qualche vivente in grazia di Dio non interceda per lui con le preghiere per fare accorciare questa attesa. Si conclude quindi il canto sottolineando ancora una volta l'importanza delle preghiere: "ché qui per quei di là molto s'avanza".


Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,

i’ mi ristrinsi a la fida compagna:
e come sare’ io sanza lui corso?
chi m’avria tratto su per la montagna?

El mi parea da sé stesso rimorso:
o dignitosa coscïenza e netta,
come t’è picciol fallo amaro morso!

Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l’onestade ad ogn’ atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,

lo ’ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi ’l viso mio incontr’ al poggio
che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga.

Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
rotto m’era dinanzi a la figura,
ch’avëa in me de’ suoi raggi l’appoggio.

Io mi volsi dallato con paura
d’essere abbandonato, quand’ io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;

e ’l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu me teco e ch’io ti guidi?

Vespero è già colà dov’ è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra;
Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto.

Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,
non ti maravigliar più che d’i cieli
che l’uno a l’altro raggio non ingombra.

A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.

Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.

State contenti, umana gente, al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;

e disïar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto:

io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’ altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.

Noi divenimmo intanto a piè del monte;
quivi trovammo la roccia sì erta,
che ’ndarno vi sarien le gambe pronte.

Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.

«Or chi sa da qual man la costa cala»,
disse ’l maestro mio fermando ’l passo,
«sì che possa salir chi va sanz’ ala?».

E mentre ch’e’ tenendo ’l viso basso
essaminava del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,

da man sinistra m’apparì una gente
d’anime, che movieno i piè ver’ noi,
e non pareva, sì venïan lente.

«Leva», diss’ io, «maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoi».

Guardò allora, e con libero piglio
rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio».

Ancora era quel popol di lontano,
i’ dico dopo i nostri mille passi,
quanto un buon gittator trarria con mano,

quando si strinser tutti ai duri massi
de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti
com’ a guardar, chi va dubbiando, stassi.

«O ben finiti, o già spiriti eletti»,
Virgilio incominciò, «per quella pace
ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti,

ditene dove la montagna giace,
sì che possibil sia l’andare in suso;
ché perder tempo a chi più sa più spiace».

Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l’altre stanno
timidette atterrando l’occhio e ’l muso;

e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo ’mperché non sanno;

sì vid’ io muovere a venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne l’andare onesta.

Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l’ombra era da me a la grotta,

restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo ’l perché, fenno altrettanto.

«Sanza vostra domanda io vi confesso
che questo è corpo uman che voi vedete;
per che ’l lume del sole in terra è fesso.

Non vi maravigliate, ma credete
che non sanza virtù che da ciel vegna
cerchi di soverchiar questa parete».

Così ’l maestro; e quella gente degna
«Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
coi dossi de le man faccendo insegna.

E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se’, così andando, volgi ’l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».

Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

Quand’ io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo ’l petto.

Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’ io ti priego che, quando tu riedi,

vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.

Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,

l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.

Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’ e’ le trasmutò a lume spento.

Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,

per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto;

ché qui per quei di là molto s’avanza».


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